Alfano e Bersani tornano al lavoro

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Susanna Camusso farà fatica a metabolizzare il colpo: «Credo che se il Pd accetterà la riforma del lavoro sull’articolo senza modifiche, dovrei fare una lunga riflessione sul fatto di rivotare o meno questo partito». E, intanto, conferma lo sciopero generale in difesa dell’articolo 18. Ma ancora più scosso sembra Angelino Alfano. Il quale – sapute le intenzioni di Bersani – ha provato comunque a tenere il punto: «Se il tentativo di qualcuno è non scontentare la Cgil, il nostro obiettivo, ribadiamo, è non scontentare ciò che rappresenta il bene comune per gli italiani».

Ieri mattina e dalle colonne di Repubblica, il segretario del Partito democratico è uscito dall’angolo in cui si era cacciato e ha riscritto l’agenda delle prossime settimane: «Quella del lavoro è una buona riforma. Se si corregge qualche aspetto, basta un po’ di senso di equilibrio per approvarla». Se non bastasse, ecco Bersani, mettere sul piatto tempi brevi: «Si può chiudere la sostanza del problema prima del 6 maggio almeno in una delle Camere». Prima cioè delle amministrative e della fine della moratoria concessa da Monti. E, soprattutto, eccolo scaricare la Cgil: «Noi abbiamo le nostre idee e non accettiamo da nessuno che si dica che siamo agli ordini del sindacato».

E il “problema”, per usare il lessico bersaniano, è diventato più cogente dopo gli ultimi dati diffusi ieri dall’Istat sulla disoccupazione: a marzo il 9,3 per cento non ha un lavoro, mentre il 31 per cento dei giovani è a casa.

Numeri attraverso i quali si scopre anche quanto l’ultimo anno e quello appena iniziato potrebbero essere i peggiori da quando è iniziata la crisi: infatti a livello mensile il tasso di disoccupazione è in aumento di 0,2 punti, mentre sul piano annuale segna un +1,2 per cento. Con il risultato che a febbraio i disoccupati hanno raggiunto quota 2.354.000, 45mila in più rispetto a trenta giorni prima/rispetto in piu’ rispetto a gennaio. Soltanto nei prossimi giorni si scoprira se quella del leader del Pd è un’apertura o l’ennesimo diktat. Infatti, dopo Bersani, nulla ha impedito a un riformista come l’ex ministro Cesare Damiano di intimare al governo, «che presta la giusta attenzione all’andamento dei mercati finanziari, di volgere lo sguardo anche verso le condizioni dell’economia reale, a partire dalle enormi difficoltà delle imprese, dei lavoratori e delle famiglie».

Mentre esponenti di punta come Anna Finocchiaro e Stefano Fassina hanno tracciato con un pizzico di leggerezza un legame tra gli ultimi, terribili dati della disoccupazione e i rischi portati da una diversa flessibilità in uscita. Fatto sta che dal Nazareno sottolineano che il segretario non aveva altra scelta, aggiungono che la parte degli ammortizzatori sociali e la stretta al precariato sembra scritta dai loro esperti e rivendicano che già nelle scorse settimane il partito aveva fatto sua la proposta della Cisl. Cioè quella di superare l’articolo 18 portando la materia sotto l’alveo della 226, la legge che disciplina i licenziamenti collettivi e prevede soltanto un risarcimento e non un reintegro.

Non a caso Pier Ferdinando Casini sposa, con estremo realismo, soprattutto un punto nel discorso di Bersani: «Non possiamo tenere aperta sul tavolo la pratica dell’articolo 18 per i prossimi mesi della campagna elettorale. Per questo almeno un ramo del Parlamento deve arrivare in porto con questa riforma. Altrimenti si lacerano i rapporti sociali, si mette tensione nel mondo del lavoro e si costruiscono contrapposizioni spesso artificiali tra i partiti».

Un auspicio fatto proprio dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che promette tempi rapidi, perché «il disegno di legge sarà presentato da qui a qualche giorno».

Ora la parola passa al governo. Questa mattina Mario Monti rientra in Italia e subito incontra Elsa Fornero e Corrado Passare proprio per limare il testo della riforma del lavoro. Da giorni girano indiscrezioni, secondo le quali tra Palazzo Chigi e via Molise girerebbero già bozze che chiarirebbero meglio l’alveo nel quale può intervenire il magistrato. Mentre dal Pd si fa affidamento soprattutto alle garanzie date del premier contro il proliferare di licenziamenti impropri.

Pier Paolo Baretta, oggi parlamentare del Pd ma nel recente passato numero due della Cisl, spiega che «fondamentale è che la fattispecie del licenziamento economico non diventi fonte di abusi. Quando il giudice accerta che il licenziamento è in realtà discriminatorio serve una norme per chiarire che ci sia la possibilità di reintegrare il lavoratore. Non abbiamo visto il testo, ma per quanto ne sappiamo manca nella legge questo passaggio che un tempo era automatico».

Al momento non sarebbero arrivati segnali da Mario Monti, il quale deve fare soprattutto i conti con gli input in arrivo da Bruxelles e i timori dei mercati. Non caso ieri, dal forum di Boao (la Davos d’oriente) ha sottolineato che «la riforma del mercato del lavoro «è mirata a modernizzare la rete di sicurezza sociale per i lavoratori e aumenta sensibilmente la flessiblità per le aziende nella gestione della forza lavoro». E proprio per dimostrare il nuovo corso del Belpaese, eccolo annunciare che «questa riforma attende ancora di essere approvata dal parlamento e spero che ciò avvenga rapidamente».

A dare sostanza ai timori del premier ci ha pensato Amadeu Altafaj, il portavoce del commissario europeo agli Affari economici e monetari Olli Rehn. Il quale, dopo la recrudescenza sul versante della disoccupazione: infatti a febbraio la disoccupazione sale nell’Eurozona al 10,8 per cento, raggiungendo il massimo da quasi 15 anni. Altafaj ha ricordato alle economie più deboli dell’Eurozona che è più importante che mai fare le riforme strutturali.

Siamo preoccupati per gli ultimi dati, sottolineano ancora una volta la doppia sfida dinanzi alla quale si trova l’Europa: consolidare i conti pubblici e fare le riforme strutturali per liberare il potenziale di crescita e creare nuovi posti di lavoro».

Dà manforte al governo, anche Giorgio Napolitano. Secondo il quale «con l’articolo 18 vigente, non toccato ancora e in attesa di riforma, se l’Alcoa avesse chiuso ci sarebbe stata una grossa fetta di licenziamenti immediatamente esecutivi. Altro che licenziamenti da articolo 18 per renderli piu’ facili». L’inquilino del Colle, dopo aver ricordato che l’accordo della settimana scorsa nasce «in un quadro di sollecitazione a cui non sono stato estraneo», ha spiegato che non ci sono alternative alla riforma del lavoro: «A chi dice: “non occupatevi del mercato del lavoro, occupatevi della crescita perché c’è la disoccupazione”, il governo risponde: “Io mi occupo della crescita e voglio aprire nuove prospettive per l’occupazione, ritenendo che l’ostacolo sia rappresentato da una situazione non soddisfacente, molto farraginosa, che si e’venuta a creare nel mercato del lavoro”». Netta la conclusione: «Si può avere l’opinione che si vuole, ma quando si ritiene di dover intervenire sulla struttura delle relazioni industriali e su quella della contrattazione che richiedono di essere riformate, lo si fa nella convinzione di agevolare la crescita degli investimenti in Italia». Parole che sembrano dirette a chi, a sinistra, non seguono l’approccio di Bersani.

 

Francesco Pacifico, Liberal

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