Berlinguer e la terza Repubblica

 

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1. Trionfa, ormai, la “democrazia del pubblico”, uno specchio opaco in cui si riflette il modello americano. Mutano le forme del Governo rappresentativo i cui principi classici vengono travolti lungo una china al fondo della quale il sistema dei partiti, la “democrazia dei partiti”, sembra sul punto di implodere travolta da uno tsunami di discredito e ostilità, da un’avversione che investe la politica nel suo complesso.

Una sorta di “crisi generale” della politica ormai alle prese con una caduta verticale di credibilità e di consenso, orientata com’è, se non eterodiretta, dal dominio della tecnica, dalla supremazia dell’economia finanziaria. All’orizzonte populismo e tecnocrazia si profilano quali possibili, incombenti esiti di un crollo, un vero e proprio disfacimento.

La “Seconda Repubblica” si conclude con una capitolazione forse ancor più ignominiosa della Prima. Senza neppure percepire la propria vergogna (vereor gogna) in quanto offuscato, se non smarrito, risulta lo stesso sentimento del pudore e affievolito persino l’impegno di una sanzione morale nel quadro di un diffuso adattamento al costume di casa da tempo invalso.

Si invoca e da tutti si plaude al nuovo – identificato con giovane il cui contrario tuttavia è vecchio – e non si persegue il “diverso”, la possibilità stessa di una rigenerazione morale e civile, foriera di un costume rinnovato ed abilitata a promuovere un sistema condiviso di regole e comportamenti.

Assistiamo in diretta, come titola il suo libro Marco Damilano, all’ “eutanasia di un potere”, lungo una sequenza che per più versi rievoca, reduplicandola, la fine della “Prima Repubblica”: una “Tangentopoli” che non è mai finita – oggi si ruba non solo per il partito, ma anche al partito, cioè si entra in politica per rubare -, affaristi che si fanno nominare in Parlamento, parlamentari che finiscono in carcere, il default del Paese all’orizzonte, il Quirinale garante della gestione di una fase transitoria, la Casta ridotta a capro espiatorio, a ente inutile, a costo da eliminare.

Dunque il compimento del giudizio, quasi una profezia, pronunciato da Pietro Scoppola nel lontano 1991: la “Seconda Repubblica” come “travestimento del vecchio ordine, più che premessa di una nuova realtà”. Ed insieme la conferma dell’ammonimento dovuto ad un buon maestro del pensiero quale Norberto Bobbio: “dov’è il nemico? Il nemico è dentro di noi. Disfacimento indica una lenta, inesorabile decadenza delle nostre istituzioni, per insipienza, superficialità, disonestà degli uomini che se ne servono”.

Qui è riconoscibile la traiettoria tanto dei partiti “pubblicitari” – il partito blob , del “presidente”, modellato sul club dei tifosi, con la bandiera, l’inno della squadra, i gadget, ben descritto da Pier Luigi Castagnetti in una proposta di legge di cui è primo firmatario, proposta che reca disposizioni per l’attuazione dell’art. 49 della Costituzione -, quanto dei partiti personali e personalizzati a centralismo carismatico che definiscono un campo in cui partecipazione, argomentazione pubblica, mobilitazione sociale cedono il passo al marketing politico ed alla mediatizzazione al punto tale che l’offerta politica non può essere influenzata dal militante, dall’iscritto, dal simpatizzante o dall’elettore, nè sottoposta ad interazione alcuna.

Come ha sottolineato Ilvo Diamanti, è la materializzazione della “democrazia immediata” di cui teorizzava il marchese di Condorcet negli anni precedenti la Rivoluzione francese, una democrazia “dis-ancorata, senza orizzonti futuri e lontani”, istantanea perché rivolta al soddisfacimento di preferenze individuali; oggi, nel tempo di internet, delle nuove tecnologie della comunicazione atte a promuovere un processo di “dis-intermediazione” che salta ogni mediazione politico-organizzativa, una democrazia irriflessiva il cui criterio appare il gusto del singolo, l’ipertrofia dell’io, la pulsione incontenibile del “mi piace”.

Ma c’è pure un’ulteriore mutazione della forma partito che sembra investire l’intero sistema, della forma partito, intendo dire, quale abbiamo conosciuto nelle sue evoluzioni nel corso della modernità contemporanea: dal partito dei notabili, a quello di “milizia”, al partito di integrazione di massa a quello “pigliatutto”. Il modus odiernus (appunto moderno) è il partito “cartello” non solo “azienda” di emanazione statale, articolazione dello Stato in quanto frutto di “interpenetrazione”, partito che controlla e gestisce risorse pubbliche – ad esempio le nomine nei vari Enti – tra le quali rientra il finanziamento pubblico, ma pure formazione politica strutturata in oligarchie chiuse, autoconservative, reciprocamente referenziali, che gestiscono fedeltà, appartenenza, selezione e cooptazione di gruppi dirigenti praticamente non contendibili.

Come scrivono Katz e Mair, in un saggio ormai classico del 1995 , i partiti sembrano diventati “partnership di professionisti più che associazioni di e per i cittadini” ed – echeggiando Weber – la politica si riduce ad “occupazione” piuttosto che “interpretare una vocazione”.

Appunto, per scostarci dalle tipizzazioni teoriche e rimettere i piedi per terra, per restare in corpore vili: forse più che il passaggio ad una “Terza Repubblica”, dopo il fallimento per consumazione della Seconda, una consumazione fortunatamente ancora senza “orda selvaggia”, seppure non manchino segni assai preoccupanti di frantumazione sociale, d’insorgenza di nuovi poteri criminali, di tentazioni aggressive ad impronta neo-stragistica e anarco-insurrezionalista, il problema resta lo stesso dei primi anni Novanta, vale a dire come fondare, dare vita ad una democrazia (non giacobina) dei cittadini e delle Istituzioni, che rimetta a loro posto i partiti e restituisca alla politica la sua dignità, le sue ambizioni.

2. I cittadini, le Istituzioni, i partiti.

A costo di apparire retro ed inguaribili nostalgici, non ci pare a questo proposito disdicevole, rileggere l’ultimo Berlinguer. Rileggerlo in un mondo radicalmente mutato, dove campeggiano globalizzazione e mercati finanziari, secolarizzazione post-ideologica ed innumerabili icone del consumo, il web e la comunicazione mediatica, insomma non solo un mondo nuovo, ma un altro mondo caratterizzato dalla fine di tutti gli “ismi” come pure da un’indubitabile spread morale.

Eppure accanto ad un Berlinguer inevitabilmente datato ,espressione di una politica che ha da tempo scontato tutti i suoi appuntamenti, resta un Berlinguer “metastorico”, più gobettiano che gramsciano o post-togliattiano, ancora alle prese con quella “eterna Italia” magistralmente descritta da Stendhal, che pure oggi si riproduce nella sua perenne autobiografia, con i suoi vizi secolari, dal trasformismo alla cortigianeria, alla mancanza di ogni vincolo di obbligazione ai valori della coscienza.

Un leader “civile”, che può essere riletto in chiave attuale, “volontarista”, “idealista”. È il Berlinguer dell’intervista ad Eugenio Scalfari del 28 luglio 1981, del saggio su “Rinascita” del 4 dicembre dello stesso anno, saggio dedicato al “rinnovamento della politica”.

Ancora: del testo, pubblicato postumo nel giugno dell’’84, preparato come parte conclusiva della prefazione ai Discorsi parlamentari di Palmiro Togliatti, e del quale aveva deciso l’anticipazione sul settimanale del Pci, uno scritto titolato emblematicamente “Parlamento, governo, partiti”. Insomma il Berlinguer della “questione morale”; per ricorrere ad un ossimoro , il Berlinguer democratico di cui un “anti-italiano” come Ugo La Malfa riconosce per tempo l’apprezzamento di un sistema di regole, la valorizzazione del governo delle leggi” sempre da preferire al “governo degli uomini” anorché illuminati, secondo la lezione insuperata di Bobbio.

Dove sta, dunque, l’attualità di Berlinguer? Esattamente là dove individua la trasformazione dei partiti collocandola nel cuore della questione morale, introducendo per tempo le ragioni basilari di un prevedibile crollo del sistema politico dell’Italia repubblicana e tuttavia finendo col sancire l’isolamento del proprio partito, nonché con l’introiettare la conventio ad excludendum, sino all’autovittimizzazione.

“I partiti di oggi sono soprattutto macchina di potere e di clientela – questa la raffigurazione del segretario comunista –: scarsa o mistificata conoscenza dei problemi della società, della gente: idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile zero. Gestiscono interessi più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli senza perseguire il bene comune”.

Da qui il passaggio successivo sulle forme e modalità organizzative : “la loro stessa struttura […] si è ormai conformata su questo modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa, sono piuttosto federazione di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sottoboss”.

Passaggi che costituiscono la premessa attraverso la quale Berlinguer giunge a tematizzare, rivendicando la “diversità comunista” – in realtà una deontologia, un dovere essere, un’aspirazione etica, non un dato politico antropologico – il rapporto partiti-Stato. L’obiettivo, che dà per scontato il riferimento all’onestà, alla pulizia, alla trasparenza, alla correttezza di condotta del personale politico, punta alla denuncia dei fenomeni di degenerazione, dei fattori di sconvolgimento delle relazioni che devono intercorrere e stabilirsi tra compiti dello Stato e delle Istituzioni da un lato e funzioni dei partiti dall’altro, tutti i partiti, comunque essi siano collocati, al governo o all’opposizione.

“Noi vogliamo – così Berlinguer dialogando con Scalfari – che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della Nazione: e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi dello Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle Istituzioni”.

E più avanti, precisando ulteriormente la propria riflessione politica: “la questione morale non si esaurisce nel fatto che essendo dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli […], la questione morale nell’Italia di oggi […] fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato […], fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione e metodi di governo […] che vanno semplicemente abbandonati e superati”.

Da queste premesse discendono, lungo una linea di assoluta coerenza che denuncia il processo di progressiva appropriazione patrimoniale dello Stato, nonché la tendenza alla privatizzazione dei partiti, due indicazioni operative.

Da una parte lotta alla corruzione – nel saggio sul rinnovamento della politica – “che sta diffondendosi in ogni campo della vita nazionale e cioè la lotta contro ogni atto e tendenza rivolti a continuare ad adoperare per interessi privati e per fini di partito organi, strumenti, uffici, corpi e mezzi finanziari che sono pubblici, che cioè appartengono a tutti”, dall’altra l’impegno dello Stato a prendere atto dei mutamenti della società, delle sue conquiste, fino ad “assumerle progressivamente – così nello scritto edito successivamente alla morte – nell’ordinamento giuridico, a sancirle in norme legislative certe e stabili, ossia, in una parola, istituzionalizzarle, rendendole così generali, di tutti i cittadini, loro bene comune […]. In tal senso e solo così lo Stato moderno è davvero Stato di diritto, Stato di tutti, Stato democratico”.

Resta naturalmente impregiudicato, quanto alla dialettica democratica, il ruolo insostituibile del Parlamento, quel Parlamento oggi marginalizzato, ridotto ad organo di acclamazione per la maggioranza e di testimonianza per le minoranze, nonché dei partiti. Insistito è il richiamo ad una funzione – Berlinguer , critico dei partiti , si spinge a sottolinearne addirittura il “primato” – che “può divenire reale, può legittimarsi e può, quindi, ricevere consensi”, solo se essi, i partiti, “stabiliscono un rapporto diretto e continuo con la società […], con i cittadini, ne colgono e ne rappresentano i veri bisogni, aspirazioni reali, ne organizzano la mobilitazione e partecipazione democratica per individuare e conseguire obiettivi che avviano a soluzione i problemi del Paese”.

A questo punto il cerchio della disamina si chiude. A Berlinguer non resta che proporre il proprio partito come modello di una diversità incontaminata, un soggetto quasi dotato di virtù salvifiche anche nel rapporto con gli altri protagonisti della vita politica italiana. Una linea, una prospettiva criticata, tanto da Alessandro Natta in alcune note personali e appunti riservati, quanto da Giorgio Napolitano allorché, scrivendo a proposito dell’anniversario di Togliatti, ne sottolinea la concretezza e duttilità politica, distinguendo criticamente tra “orgogliosa affermazione della nostra “diversità”” e impegno “a far leva sulle “peculiarità” del nostro partito per contribuire ad un corretto rilancio della funzione dei partiti in generale come elemento insostituibile di continuità e di sviluppo della vita democratica”.

Come siano andate poi le cose è a tutti noto. Il conservatorismo istituzionale del Pci, e molto altro ancora, non è risultato estraneo alla crisi del Paese ed alla consumazione della prima fase della storia repubblicana. In questo la cronaca del suo tempo ha dato indubbiamente torto a Berlinguer. Ma la vicenda successiva ha finito per confermare e attribuire indubbie ragioni alla lucidità dei suoi giudizi e alla validità della sua testimonianza morale e politica.

 

 

Paolo Corsini, deputato Pd, già sindaco di Brescia, TamTam Democratico

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