I cattolici alla Costituente

 

Costituente

A dispetto di una leggenda dura a morire durante la Costituente non vi fu alcun “compromesso” più o meno “storico” fra i cattolici ed i comunisti. Certamente i lavori della Commissione per la redazione della Carta costituzionale (la cosiddetta “Commissione dei Settantacinque”) fu un luogo di alto dialogo e confronto fra parti politiche che avevano ideologie forti, ma che non erano ancora coinvolte in quella rigida contrapposizione che avrebbe caratterizzato gli anni seguenti, quelli della guerra fredda.

Non vi fu però, come dimostra la lettura degli atti, alcun “mercato”, alcuna ricerca di do ut des: le convergenze furono trovate sulla base di un lavoro culturale che i costituenti avevano alle spalle.

La loro opera non è comprensibile se si prescinde dal travaglio della cultura europea negli anni fra le due guerre. La sensazione che “fosse cambiato il mondo” era stata fortissima e tutti avevano in vario modo riflettuto su questo fenomeno che appariva quasi palpabile. Del resto sconvolgimenti dell’ordine internazionale come la rivoluzione bolscevica e poi quelle fascista e nazista non potevano far pensare che fosse possibile andare avanti come prima. Il fenomeno dell’antifascismo è una reazione a questa svolta storica, ma anche coloro che non l’avevano letta sotto questa angolazione, condividevano la percezione che “tempi nuovi” si stessero affacciando all’orizzonte.

Il cattolicesimo internazionale era stato pienamente coinvolto in questo clima culturale, anche se di esso aveva dato letture diverse. E’ tuttavia emblematico che anche uomini che si erano fatti convincere che il segno del cambiamento fosse quello verso cui sembravano andare i regimi totalitari non avessero poi difficoltà a ricredersi e ad indirizzarsi verso interpretazioni diverse.

Il caso emblematico da questo punto di vista è quello del rettore della Cattolica,padre Agostino Gemelli, che fu tra i primissimi ad intuire nel 1943 che il radiomessaggio natalizio di Pio XII segnava un punto di svolta nella considerazione della chiesa verso il sistema democratico e che di conseguenza indirizzò il circuito intellettuale che ruotava attorno alla sua istituzione verso quei nuovi lidi. Giuseppe Dossetti, che sarà un protagonista indiscusso dell’avventura costituente, inizierà ad occuparsi a fondo di “politica” proprio in quella occasione.

Naturalmente questa fuoruscita dall’universo culturale che era sembrato vincente con l’egemonia dei fascismi interessa anche altre culture oltre quella cattolica. Rappresentare questo travaglio come operazione di “voltagabbana” così come fa una disinvolta letteratura è solo opera della incapacità di certi intellettuali di produrre analisi che non siano quelle della commedia dell’arte con le sue maschere fisse e prevedibili.

I cattolici arriveranno alla Costituente con il background culturale di una riflessione sulla crisi, background che è comune a tutti anche se viene letto in maniera diversa. Schematizzando possiamo dire che le componenti conservatrici vedono nella crisi la conferma della tradizionale condanna della Chiesa verso il mondo “moderno” e dunque pensano alla possibilità di una restaurazione cattolica. Questa è, pur con sfumature, la posizione assunta dal gruppo attorno alla rivista “La Civiltà Cattolica”. Per converso le componenti più culturalmente raffinate ed inquiete (definirle “di sinistra” è una inutile semplificazione) vedono nella crisi la necessità complessiva del ripensamento della modernità, assumendo in senso progressista sia temi tradizionali (la condanna del liberalismo e dell’individualismo, un certo anticapitalismo) sia temi nuovi che si affacciano sulla scena internazionale (il personalismo, il nuovo umanesimo, la possibilità di una economia pianificata).

Fra queste due componenti ve ne è, soprattutto in Italia, una terza, di per sé assolutamente minoritaria, anche se grazie alla statura di alcuni suoi esponenti assumerà un ruolo egemonico. Si tratta di coloro che, come Alcide De Gasperi, pensano che la novità dei tempi richieda ciò che in termini sociologici chiameremmo l’inquadramento delle masse perché la domanda essenziale per la ricostruzione dei sistemi politici è la stabilità attorno ad un sistema “culturale” condiviso (in senso antropologico) e questo può venire soltanto dal recupero del cattolicesimo (o in Germania del cristianesimo) come tessuto connettivo condiviso.

Dico subito che per i leader di questa componente (De Gasperi, Adenauer), la stabilizzazione dopo il crollo dei fascismi non risiederà nella scrittura di una Carta che dia forma ad un nuovo ordine politico, ma nella ricostruzione del sistema di governo che “contenga” entro un quadro di certezze legislative la ripresa della vita sociale. Profondamente colpiti dalle crisi italiana e tedesca del primo dopoguerra, questi uomini hanno un’idea non banale della domanda di “ordine” che viene da società traumatizzate dai precedenti sogni di gloria e dai loro esiti.

Naturalmente oggi si può sia convenire sulla lungimiranza di questa impostazione per la gestione immediata dell’uscita dalla guerra e della ricostruzione, sia sulla debolezza che questa prospettiva avrebbe finito per avere sul medio e lungo periodo, soprattutto nel momento in cui non avesse più potuto camminare su solide gambe di leader di notevole statura, capacità della necessaria duttilità nell’interpretare gli eventi.

Con questa riflessione possiamo comprendere perché sia stata così importante l’opera dei cattolici che ho definito “inquieti” all’interno dei meccanismi di elaborazione della Carta costituzionale del nostro paese. Chi ha letto i resoconti dei lavori e studiato il periodo ha potuto vedere che pochissimi erano arrivati all’appuntamento con una idea precisa di cosa significasse una “fase costituente”.

Nelle sinistre questa era un rinvio mitico alla fondazione di uno stato “nuovo” per cesura più o meno rivoluzionaria, perché così appariva ad una cultura che l’idea di costituente l’aveva appresa prima dalla rivoluzione francese e poi dal mazzinianesimo. Ciò spiega come mai la decisione di De Gasperi di privare la Costituente della scelta fra monarchia e repubblica affidandola al referendum popolare avesse lasciato per così dire senza argomenti le sinistre.

Le destre avevano, a parti rovesciate, più o meno la stessa idea, in quanto la ricerca di una nuova Carta Costituzionale era stata una forte domanda (inevasa) del fascismo di sinistra o comunque radicale. Ora per esse la Costituente doveva solo essere l’occasione per porre impedimenti legali insuperabili a qualsiasi possibilità di “rivoluzione” (il che spesso voleva dire anche di “evoluzione”).

Furono quindi gli uomini riuniti attorno alla leadership di Giuseppe Dossetti, i famosi “professorini”, che poterono farsi carico dell’idea che fosse non solo possibile, ma doveroso scrivere una “costituzione”, cioè raccogliere in un testo giuridico il disegno di quella nuova forma di stato a cui i cattolici non avevano sino ad allora potuto contribuire perché la rottura anticlericale della rivoluzione francese li aveva tagliati fuori dalla storia del costituzionalismo europeo. Essi, specialmente La Pira, la pensavano in questo modo, in verità al contrario di De Gasperi che invece riteneva, piuttosto solitario, che ci fosse una tradizione di liberalismo costituzionale cattolico anche fra Otto e Novecento a cui ci si sarebbe potuti rifare senza bisogno di nuove idee.

Fu grazie alla fede dei dossettiani nella possibilità di scrivere un “progetto di stato” che rispondesse alle domande della crisi epocale in cui si operava che la costituzione italiana assunse quella fisionomia peculiare che ancora oggi ne fa la grandezza: un progetto che guardava essenzialmente a fissare la fisionomia dello spazio pubblico come luogo dell’incontro tra la persona con le sue radici ed i suoi diritti di appartente a varie comunità e la forza delle istituzioni da mettere a supporto del loro sviluppo morale e materiale nel segno del bene comune.

Questa impostazione non fu priva di rischi né senza debolezze. Il rischio principale è nella debole connessione nel ragionamento di definizione delle due componenti: forte nel pensare la base personalista e comunitaria (la si volesse leggere anche oggi in maniera propria), evanescente nell’immaginare la fisionomia istituzionale, perché si finì inevitabilmente legati al pensiero giuridico datato in materia di interpretazione e definizione del ruolo dello stato. La debolezza consistette nel fatto che si trattò, per tanti versi, di una operazione “giacobina”, cioè espressione di una minoranza avanzata che faceva fatica a tirarsi dietro non solo il cattolicesimo ufficiale, ma lo stesso popolo italiano organizzato da partiti piuttosto sordi a queste istanze, nonché da elite intellettuali che erano lontane da queste sensibilità verso i tempi nuovi.

Naturalmente col tempo rischi e debolezze sarebbero stati alternativamente o esorcizzati dalla maturazione di una migliore comprensione del dettato costituzionale o rilanciati dal ritorno in campo delle rigidità ideologiche delle tradizioni sub culturali del nostro paese. Resta il fatto che dobbiamo alla minoranza cattolica il carattere “lungimirante” della nostra Carta, anche se va riconosciuto che altri, a cominciare da Togliatti (ma non direi dal PCI nel suo complesso), finirono per farsi conquistare dal fascino di quella impostazione.

In tempi successivi il valore della “lungimiranza” è scomparso dall’orizzonte della formazione politica e questo ha messo in crisi non solo il riconoscimento di questa storia peculiare (il che sarebbe poco male), ma soprattutto il senso e il significato di quello che una volta si chiamava il “lavoro politico”.

 

 

 

Paolo Pombeni, Docente di Scienze politica presso l’Università di Bologna


TamTam democratico, dicembre 2011

 

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