ISPI, USA-Iran: l’Iraq non può (più) essere un terreno di scontro

di Chiara Lovotti, ISPI e Università di Bologna

L’operazione di intelligence americana che ha ucciso Qassem Soleimani, il generale iraniano vero e proprio stratega della politica di Teheran nel Medio Oriente, e il meno celebre Abu Mahdi al-Muhandis, alto ufficiale a capo delle milizie irachene Kata’ib Hezbollah, ha poco a che fare con l’Iraq. Ufficialmente, l’operazione in territorio iracheno – una violazione evidente della sovranità del paese – è stata presentata da Washington come una “azione difensiva” e sarebbe stata decisa anche alla luce di alcuni attacchi perpetrati proprio dalle milizie irachene appoggiate da Teheran ai danni delle forze statunitensi: fra questi, l’uccisione di un contractor americano lo scorso 27 dicembre e l’attacco all’ambasciata americana a Baghdad del 31 dicembre. Eppure, le motivazioni profonde del raid americano sono in realtà da ricercarsi non tanto in Iraq, quanto soprattutto – se non esclusivamente – nella contesa fra Stati Uniti e Iran. Ciò che è certo, è che a subire le conseguenze dell’accaduto sarà primo fra tutti l’Iraq. Una questione di cui però nessuna delle parti in causa sembra curarsi.

Una prima evidente conseguenza delle ostilità in corso fra Stati Uniti e Iran è quella di una ulteriore destabilizzazione del sistema politico iracheno. Da ottobre ormai, la debole leadership al potere è letteralmente in balia delle violente proteste popolari che stanno scuotendo in particolare le aree centro-meridionali (lasciando per ora disinteressata la zona a nord a maggioranza curda), e difficilmente potrà riorganizzarsi e trovare il modo di rispondere alle istanze delle piazze in un clima politico così precario. Inoltre, se le proteste avevano portato alle dimissioni del Primo ministro Adel Abdul-Mahdi, questi continua a servire come ministro ad interim e, per gli interlocutori internazionali, a rappresentare il principale referente nella crisi attuale, di fatto vanificando forse l’unico, modesto risultato ottenuto dai manifestanti (le cui istanze certamente richiedono una risposta istituzionale, ben più profonda e complessa della semplice rimozione di un leader di governo). L’escalation di questi giorni allontana definitivamente la possibilità, timidamente paventata dalla classe politica nel corso di questi mesi, di organizzare nuove elezioni: invece che dipendere da Baghdad e dal volere degli iracheni, il futuro politico del paese sembra sempre più legato agli sviluppi fra Washington e Teheran.

In secondo luogo, l’attacco americano ha inevitabilmente portato a un ricompattamento del fronte sciita nei confronti della presenza militare degli Stati Uniti in Iraq. Se è vero che la classe dirigente sciita del paese si caratterizza per essere estremamente divisa e frammentata, al punto che la politica irachena è spesso inconcludente, l’attacco americano paradossalmente unisce le frange più distanti in unico coro, che condanna fortemente l’accaduto e ricorda Soleimani e al-Muhandis come due martiri. Il premier Abdul-Mahdi ha definito l’attacco un “atto di aggressione” nei confronti dell’Iraq, una violazione della sovranità del paese e un gesto pericoloso che porterà la guerra dentro e fuori i confini iracheni. La somma autorità religiosa, l’Ayatollah Ali al-Sistani, ha evidenziato la violazione “insolente” da parte americana tanto della sovranità nazionale quanto del diritto internazionale, invitando tutte le parti ad “agire con moderazione e saggezza”. Moqtada al-Sadr, alla guida del partito che detiene la maggioranza in parlamento e già noto per la sua retorica populista in grado di mobilitare le piazze, ha persino invocato la ricostituzione dell’esercito del Mahdi, la milizia irregolare che negli anni successi alla caduta del regime di Saddam Hussein ha combattuto gli americani e il governo provvisorio da loro istituito (Coalition Provisional Authority, 2003-2004).

Sul piano militare, poi, l’attacco mirato a Soleimani e al-Muhandis rafforza le posizioni anti-americane in seno alla leadership irachena. Domenica 5 gennaio, a soli due giorni dall’attacco, il parlamento di Baghdad – convocato in via emergenziale da Abdul-Mahdi – ha richiesto la fine della collaborazione militare con gli Stati Uniti e il conseguente ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq. Se un simile scenario si verificasse, le Forze di sicurezza irachene si troverebbero di colpo private di un alleato fondamentale, per anni a guida della coalizione internazionale che ha sconfitto il progetto statuale dello Stato Islamico e che continua a combatterne le frequenti recrudescenze. Al netto dei recenti avvenimenti, peraltro, il vuoto creato da un ipotetico ritiro USA potrebbe aprire la strada a una riorganizzazione dello Stato Islamico. Un eventuale ritiro americano, poi, potrebbe portare le Forze irachene a cercare una sempre maggiore collaborazione militare con l’Iran, nonostante negli ultimi mesi proprio le proteste popolari abbiano dimostrato una crescente insofferenza nei confronti delle interferenze iraniane (l’attacco all’ambasciata statunitense da parte delle milizie filo-iraniane, ad esempio, è stato considerato come un azzardo evitabile da buona parte dell’opinione pubblica irachena). A fronte di queste ipotesi, però, il ritiro del contingente militare non sembra affatto fra le opzioni da considerare sul tavolo della Casa Bianca, che sembra al contrario intenzionata a rafforzare le proprie basi nella regione. A dispetto di un tanto decantato disimpegno americano dal Medio Oriente, negli ultimi mesi Washington ha incrementato la sua presenza nell’area, e 750 fra marines e soldati sono stati inviati solo a Baghdad in seguito all’escalation di questi giorni. Una contraddizione, questa, che potrebbe creare attriti fra Washington e Baghdad.

Infine, la mossa avventata di Washington porta inevitabilmente a una escalation che allontana qualsiasi barlume di ripresa economica e riconciliazione nell’Iraq del dopo Stato Islamico. La risposta iraniana all’uccisione di Soleimani non si è fatta attendere troppo: nella notte fra il 7 e l’8 gennaio, missili iraniani hanno colpito una base aerea nei pressi di Erbil, nel Kurdistan iracheno, e la base americana di Ayn al-Asad, nella provincia centro-occidentale di al-Anbar. Quest’ultima è unauna base militare particolarmente importante, situata in un luogo chiave dove si sono giocate molte delle partire contro lo Stato Islamico, e presso la quale lo stesso Presidente americano Donald Trump si era recato, nel Natale 2018, nel corso della sua prima e unica visita in Iraq. Sebbene la rappresaglia iraniana sia stata studiata in modo da non provocare vittime fra i soldati americani e abbia dunque avuto una valenza principalmente simbolica, e malgrado il discorso del Presidente Trump all’indomani della stessa abbia in qualche modo calmato le acque e aperto uno spiraglio per una de-escalation, tensione e allerta rimangono alte. In quello che, tragicamente, sembra ormai un gioco delle parti, l’attacco iraniano della scorsa notte sembra volere indicare che la coabitazione di forze iraniane e statunitensi in Iraq sarà sempre più difficile. Secondo alcuni osservatori, inoltre, il fatto stesso di attaccare nella provincia di al-Anbar, cuore della comunità arabo-sunnita, e nella regione del Kurdistan, potrebbe essere un modo per spingere le componenti sunnita e curda nel parlamento iracheno, che il 5 gennaio hanno boicottato il voto sul ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq, a prendere una chiara posizione e ad accettare una direzione filo-iraniana. Un gioco pericoloso, però, che potrebbe anche avere l’effetto di rafforzare la percezione dell’Iran come minaccia da parte di queste comunità. In altre parole, l’accendersi delle rivalità fra Stati Uniti e Iran rischia di dividere ulteriormente la società irachena e portare sempre maggiore instabilità, allontanando peraltro i tanto attesi investimenti stranieri per la ricostruzione.

Solo un anno fa, policy-makers e comunità scientifica si trovavano a parlare della ricostruzione e della rinascita di un paese pronto a rialzarsi. Oggi, l’unico obiettivo sembra essere quello di evitare una nuova crisi, potenzialmente molto più devastante di quella che, con la sconfitta territoriale dell’ISIS, l’Iraq ha recentemente superato. Questa volta, infatti, il destino di Baghdad sembra affidato quasi esclusivamente ad attori terzi, che nel paese trovano terreno per esercitare le loro guerre per procura, noncuranti delle sofferenze senza fine a cui la sua popolazione è sottoposta.

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