Lavoro. Giovani per la pensione, vecchi per un posto a 40 anni con l’incubo della disoccupazione

unemploymentoffice Si allarga l’area dei disagiati “maturi”. Sono un milione mezzo gli “esodati” più giovani che non riescono a trovare una collocazione. L’85% è laureato o diplomato, ma il titolo di studio è spesso un ostacolo invece di essere un vantaggio.

Scarti a 40 anni. Scarti dopo aver perso un lavoro e non riuscirne a trovare un altro. Scarti. Quella degli over 40 espulsi dal mercato del lavoro rischia di diventare presto una nuova emergenza sociale. Perché non ci sono solo i giovani precari del lavoro. Secondo alcune stime sarebbero quasi un milione e mezzo i disoccupati e gli scoraggiati cosiddetti “maturi” (età media 45 anni), troppo giovani per la
pensione, troppo vecchi per una nuova occupazione stabile. Con una differenza: i giovani possono tornare (e in molti casi lo fanno) alla famiglia d’origine, i “vecchi” hanno moglie e figli da mantenere e un mutuo da pagare.

Il 65% dei disoccupati over 40 è capofamiglia, l’80% è uomo. È una vita che finisce quando si viene licenziati a 40 anni e passa. Ne comincia un’altra dominata dall’incertezza. Meno del 5% ritrova un lavoro solido. Non si torna più indietro. È uno sconquasso, anche emotivo. Gli esodati, nuova categoria sociale prodotta dall’ultima durissima riforma delle pensioni, ci hanno mostrato un pezzo del fenomeno in carne ed ossa che altrimenti sarebbe rimasto in chiaroscuro. Come in tutti questi anni mentre in silenzio si ingrossavano, dalla fine degli anni Novanta, le file degli over 40 senza lavoro: disoccupati, mobbizzati, scoraggiati, precari, discriminati, sommersi, invisibili, poveri e, infine, abbandonati. Gli ultimi figli del baby boom, vittime della globalizzazione che ha dettato anche i tagli al welfare state nazionale. Aggrediti nella propria identità. Perché «il lavoro – ha scritto il sociologo Luciano Gallino – non è soltanto
un mezzo di sussistenza. Il lavoro rimane ed è destinato a rimanere per generazioni un fattore primario di integrazione sociale».

Il turn over. A metà degli anni 80 l’economista torinese Bruno Contini studiò il processo di sostituzione del personale all’interno delle aziende italiane attraverso la leva dei contratti di formazione e lavoro, incentivati dagli sgravi fiscali e contributivi. Parlò allora di “old out, young in”: i giovani assunti al posto degli anziani espulsi. Quasi un patto tra padri e figli, un patto non proprio raffinato, ma un patto. «Oggi non ha più senso parlarne – dice Contini – . Oggi continuano ad esserci gli old out, ma non ci sono più i giovani che entrano nelle imprese. Da più di dieci anni a questa parte, il ricambio è scarsissimo.

Gli over quaranta senza lavoro sono uno dei nuovi soggetti della precarietà. Molti di loro sono entrati nel mercato del lavoro con i contratti flessibili, e sono rimasti precari». Stefano Giusti è un cinquantenne. Vive a Roma. È il presidente di Atdal, l’associazione per la tutela dei lavoratori over 40. È laureato in sociologia. Nel 2004 si ritrova senza lavoro: chiude la società con cui collaborava. «Nessun problema, mi dissi. Figuriamoci se non trovo un altro lavoro! Mi sbagliavo. Cerco, ma non trovo nulla per quasi un paio d’anni. Qualunque lavoro. Faccio il cameriere, l’addetto dei call center, il giardiniere. Faccio di tutto, ma non tutti mi vogliono. Un giorno vedo un cartello affisso sulle vetrine di un negozio di calzature: “Cercasi commesso”. Eccomi! Il titolare mi chiede il curriculum e quando glielo porto mi fa: “Ma lei è laureato. No, non me la sento di prenderla”».

Perché l’85% dei disoccupati over 40 – secondo Atdal – è in possesso di una laurea o di un diploma di scuola media superiore. Sa usare il computer e conosce l’inglese. Ma alle aziende non interessa: è vecchio. Qualche anno fa la Sda Bocconi ha effettuato una ricerca sugli annunci di lavoro pubblicati sui quotidiani. Quasi il 43% delle inserzioni indica un vincolo anagrafico e nell’87% dei casi è inferiore ai 44 anni. In media si cerca personale con un’età compresa tra i 24 e 34 anni. Gli altri sono out. Ma gli annunci che escludono gli anziani sono contro le leggi europee recepite in Italia e che vietano le discriminazioni anche per l’età.

Uomini a rischio. Per gli uomini è peggio che per le donne. Perché gli uomini non sanno gestire l’insuccesso sociale. Molti ricevono la lettera di licenziamento ma non lo dicono a nessuno, nemmeno alla moglie. Fingono di continuare a condurre la vita precedente. Raccontano innanzitutto a se stessi una grande bugia che allunga e complica il recupero dopo lo shock della perdita del lavoro. «Che – spiega Laura Menza, psicologa del lavoro, impegnata da anni tra i disoccupati maturi – è un trauma pari a quello di un lutto. I disoccupati maturi hanno una serie di responsabilità sulle proprie spalle: la famiglia, i figli da mantenere, spesso i genitori anziani da sostenere.

Privati del lavoro non possono più affrontare queste responsabilità. È la perdita di una parte di sé. All’inizio c’è l’incredulità e, soprattutto tra gli uomini, si coltiva un senso di colpa: ho perso il lavoro, è colpa mia. C’è un senso di vergogna. Si frantuma la propria identità. Si perde l’autostima».

Quello che rimarcano di più i disoccupati over 40 è il senso di abbandono che sono costretti a vivere. Le istituzioni evaporano perché nei fatti i centri per l’impiego non funzionano e il sostegno al reddito (cassa integrazione o mobilità) non è per tutti (solo un lavoratore su quattro è protetto). «Per l’azienda sei diventato un nemico dopo che gli hai dato tutto per anni», dice Aurelio D., 55 anni, che per una cessione di ramo d’azienda (settore delle consulenze) si è ritrovato senza niente dalla sera alla mattina. E il sindacato? «Quando sei licenziato non c’è più il sindacato». Resta, anche in questo caso, la famiglia nei casi in cui l’altro coniuge lavora. E la famiglia regge se c’è «una situazione ben strutturata», spiega ancora Menza. Altrimenti si frantuma, pure sul piano affettivo. «Almeno nel 30% dei casi finisce con la separazione». Poi c’è la rete informale, i rapporti di amicizia, quei pochi fili che non si rompono e tengono in collegamento gli ex colleghi. «Ora lavoro all’Università – racconta Giusti -. Ho trovato un contratto a termine grazie alla segnalazione di un mio amico. Scado a luglio. Poi si vedrà».

Trend in crescita. Pure l’ultimo Rapporto dell’Istat certifica che i contratti a termine crescono tra gli adulti: nel 2011 la quota dei 30-39enni sul totale degli occupati a termine è stata pari al 12,6 % e quella dei 40-49enni all’8,8 % (erano, rispettivamente, il 7,7 e il 5,3% nel 1993). Nella maggioranza dei casi, l’over 40 licenziato si trasforma da dipendente a partita Iva forzata, diventa consulente. Si mette in proprio. È un modo per ricostruirsi un’identità sociale.

Spesso per non rivelare di essere disoccupato. Da qui lo scarto tra i numeri dell’Istat che per gli over 40 registra nel suo ultimo Rapporto 846 mila disoccupati (erano 540 mila nel 1993) e le stime di Atdal che parla di almeno 1,5 milioni.

Inviare il curriculum non serve a niente. Lo sanno tutti, eppure tutti lo fanno. Marco N. ha 54 anni, da quasi dieci è in cassa integrazione a zero ore. È un informatico che non ama l’informatica. Il suo sogno professionale rimane quello di fare il ferroviere, «macchinista, operatore, qualunque cosa tra i binari». «Ho mandato il curriculum a Ntv di Montezemolo anche in inglese. Nessuna risposta: vogliono solo giovani». Il paradosso, nel continuo sordo declino italiano, è che questi over 40 senza lavoro sentono di contare meno, nel dibattito pubblico, dei giovani precari. Eppure l’età media dell’elettore italiano coincide proprio con la loro. «Ma noi – sostiene Aurelio – non blocchiamo il traffico ferroviario, non saliamo sui tetti, non incendiamo i cassonetti. Noi siamo invisibili».

 

Roberto Mania, La Repubblica, 11 giugno 2012

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