Riforme istituzionali: Presidenzialismo? Ecco perché no

pezzotta 

Prima di analizzare nel merito la proposta di riforma «presidenzialista » dello Stato presentata dal Pdl, sono necessarie due premesse.

Prima di tutto, quando si fanno proposte di riforme istituzionali- costituzionali si cade facilmente nell’errore di invertire il rapporto che dovrebbe correttamente intercorrere tra condizione della società e istituzioni utili per governarla. Così, per ciò che riguarda il presidenzialismo, non ci si chiede se la società italiana possa essere utilmente governata con questa formula, ma si stabilisce a priori che il presidenzialismo è un sistema che incrementa positivamente la governabilità. Insomma, senza un’analisi della sua fattibilità e delle sue eventuali ricadute in Italia, qualunque proposta risulta gratuita.

In secondo luogo, bisognerebbe sapere esattamente di quale presidenzialismo si tratta. Il Pdl sembra prospettare l’elezione diretta del presidente della repubblica cui viene conservata, però, una specifica funzione di organo di garanzia e quindi non saremmo in realtà di fronte a un presidenzialismo in senso proprio.

Ebbene, una simile proposta è da respingere perché l’elezione diretta di un organo di garanzia espone l’eletto al pericolo di volersi appropriare di funzioni di decisione politica, potendo opporre alla volontà del Parlamento la propria condizione di essere investito di «sovranità popolare» (le istituzioni – diceva Locke – non devono favorire quel tanto di ‘briccone’ che c’è in ogni uomo).

Veniamo invece al presidenzialismo cui presumibilmente si pensa nella proposta del Pdl. Essa dovrebbe prevedere – come è nel presidenzialismo Usa e nel cosiddetto semipresidenzialismo francese – che il presidente eletto sia organo di governo, dotato cioè di un vero e proprio potere politico. Ebbene, su questo ci sono alcune questioni importanti da approfondire.

Un primo problema: nel presidenzialismo – anche in quello francese, perché ad esso mi pare si pensi – il Presidente della Repubblica assomma in sé due funzioni che non sono facilmente conciliabili: quella di rappresentante della nazione in quanto tale, diretta dunque ad “unire” e a collocarlo super partes; ma anche quella di uomo di governo, eletto da una maggioranza in opposizione ad una minoranza, con un programma che si può differenziare anche profondamente da quello del candidato perdente.

In questa veste, il presidente è tenuto all’attuazione del programma di maggioranza e quindi in qualche modo a “dividere”. Non sono necessarie molte parole per valutare tutta la problematicità di questa condizione.

Poi, se si tratta di semipresidenzialismo, il sistema prevede accanto al presidente un governo responsabile di fronte al parlamento (il semipresidenzialismo è tale proprio perché convive con una forma di parlamentarismo). Il governo è nominato dal presidente e può essere sfiduciato. Se la maggioranza da cui è uscito il presidente è omogenea con quella parlamentare, il presidente è un ‘dominus’ assoluto e i poteri del governoparlamento sono politicamente pressoché inesistenti. Osservo: si è in presidenza di un organo monocratico, legittimato dalla sovranità popolare, dotato di un forte potere. Non è assente un pericolo di autoritarismo.

C’è poi un terzo problema: poniamo il caso in cui il presidente si trovi di fronte al Parlamento a maggioranza disomogenea rispetto a quella da cui ha tratto la propria elezione. In tal caso, la mitica governabilità del presidenzialismo è messa in pericolo e non si raggiunge lo scopo per cui lo si vuole.

Se poi consideriamo che il presidente è dotato del potere di sciogliere le Camere, nell’ipotesi di cui ho appena parlato, il presidente sarà portato a sciogliere le Camere per ottenere una maggioranza omogenea. Mentre però nel regime parlamentare lo scioglimento mira a funzioni di governabilità che non riguardano direttamente l’organo che ha il potere di sciogliere, in questa diversa ipotesi lo scioglimento è riservato a chi di esso è destinato eventualmente a goderne direttamente.

Non mancano pericoli di strumentalizzazione del potere di scioglimento, non fosse altro perché esso può essere azionato dal presidente nel momento più utile a sé. Inoltre, in una società non omogenea una ‘durata’ necessaria per un tempo predeterminato di un potere forte non è sempre una soluzione utile (senza contare che un potere stabile e forte non è necessariamente un buon governo).

E infine il presidenzialismo (o semipresidenzialismo) poggia in genere su un sistema politico bipartitico o almeno bipolare. Questo sistema non è il nostro (per inciso, non lo era quello francese della IV repubblica): lo si può creare con un sistema elettorale? Sono contrario a coartare la società con istituzioni che diventano una camicia di forza.

In tutti i casi il doppio turno – che sembra oramai andare per la maggiore – ha anch’esso un’ascendenza francese, ma attenzione che lì lo sbarramento è del 12%. Così certo si semplifica, ma una soluzione del genere è praticabile da noi?

Per concludere, non abbiamo bisogno tanto di presidenzialismo, quanto di una riforma elettorale che personalmente preferirei proporzionale: va combattuta la favola che il proporzionalismo sia nemico della governabilità. Il nemico sta nel malcostume politico di chi stretta un’alleanza non la rispetta.

Abbiamo bisogno di un sistema che imponga democrazia interna ai partiti; di una correzione del regime parlamentare verso una sua ulteriore razionalizzazione (la sfiducia costruttiva è un’ipotesi); di una riforma del bicameralismo che preveda una Camera delle regioni e degli altri enti territoriali. Il solo modo per assicurare autentiche forme di autonomia.

 

 

di Savino Pezzotta

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