Stati Uniti ed Unione Europea sono passate dalle parole ai fatti. Dopo anni di tensioni, Washington ha convinto Bruxelles ad estendere le sanzioni al bene più prezioso per il regime degli Ayatollah: da gennaio anche il petrolio iraniano è finito nelle mire dell’Occidente.
Il bilancio a due mesi dall’imposizione delle sanzioni è ancora incerto. Da un lato, la durezza delle sanzioni sembrerebbe avere già un impatto sull’economia iraniana e, dall’altro, la difficoltà di attuazione legata al complesso scenario internazionale presenta problemi che potrebbero non solo minare l’intero impianto sanzionatorio, ma anche favorire la costruzione di alleanze internazionali che rafforzino l’Iran e la sua volontà di dotarsi del deterrente nucleare.
Economia e diplomazia
Le sanzioni contro il petrolio di Teheran sono il prodotto di una raffinata (e rischiosa) strategia Usa che, pur senza una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sta cercando di imporre sanzioni globali all’Iran in grado di strangolare l’economia del paese e, con essa, anche la capacità di proseguire il programma nucleare.
Questa strategia si sviluppa su tre piani. Il primo riguarda le sanzioni extra-territoriali che gli Stati Uniti possono imporre ad operatori finanziari ed aziende che realizzano transazioni commerciali con la Banca nazionale iraniana.
Il secondo piano è diplomatico e mira a convincere i maggiori compratori di petrolio iraniano, fra i quali Giappone, Corea del Sud, Cina ed India, a ridurre le proprie importazioni.
Infine, il terzo piano è affidato all’Unione europea ed al divieto imposto alle compagnie assicurative di fornire polizze alle petroliere in direzione e partenza dall’Iran. Considerando che le compagnie assicurative europee forniscono servizi al 95% delle petroliere del mondo, diventa facile immaginare i problemi logistico/organizzativi che sta affrontando l’Iran per spedire e ricevere merci.
Sanzioni di tale portata assomigliano a un embargo totale al petrolio iraniano e gli effetti sono già evidenti. Secondo quanto dichiarato da un consulente di Barclays Amrita Sen a Bloomberg, negli ultimi mesi le esportazioni dall’Iran sono diminuite di 300/400 mila barili al giorno. Con una produzione totale in leggero calo dal 2010, la stima di produzione giornaliera a marzo di quest’anno è di 3,43 milioni di barili al giorno con circa 2,2/2,4 milioni di barili che vanno sul mercato estero.
Considerato che il 50% delle finanze pubbliche dell’Iran dipende dalla vendita di petrolio e che solo l’Unione europea e la Cina comprano oltre un milione di barili, è facile immaginare come una collaborazione assesterebbe un duro colpo a Teheran.
Le restrizioni finanziarie non sono limitate al settore petrolifero. La minore capacità di accedere a nuove linee di credito da parte degli operatori iraniani colpisce direttamente anche aziende straniere.
Produttori indiani di riso hanno lamentato difficoltà nel ricevere pagamenti da compratori iraniani per circa 144 milioni di dollari. Problemi ad effettuare pagamenti si sono verificati anche per Mtn, l’operatore di telefonia sudafricano che non ha potuto utilizzare i propri istituti a Dubai per traferire denaro fuori dall’Iran. L’amministratore delegato Sifiso Dabengwa ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che tutte le aziende che usano dollari americani o euro hanno problemi ad effettuare qualsiasi transazione con l’Iran.
Anche i contadini nelle Filippine stanno riconsiderando le loro forniture di ananas e banane viste le difficoltà a ricevere i pagamenti dalle aziende iraniane. I due miliardi di crediti dovuti ad Eni e ricordati tempo fa dall’amministratore delegato Scaroni, potrebbero subire lo stesso destino.
Quattro complicazioni
L’impatto delle sanzioni, anche se inizia a sentirsi nella già debole economia iraniana, non si traduce automaticamente con successo. Vi sono quattro fattori che complicano la strada delle sanzioni. In primo luogo, la mancanza di una risoluzione Onu lascia agli Stati Uniti solo la loro moral suasion per convincere i grandi compratori di petrolio iraniano a ridurre le loro importazioni. In realtà, si va in ordine sparso a scapito dell’efficacia delle sanzioni.
La Turchia ha dichiarato di non voler interrompere i commerci con l’Iran ed il Telegraph ha già parlato di un possibile aiuto che la Turchia potrebbe offrire all’Iran per evadere le sanzioni. Al tempo stesso, l’India sta valutando di scambiare il petrolio con prodotti alimentari. Una forma di baratto in quantità industriali vista l’impossibilità per l’India di sopperire nel breve periodo all’eventuale rinuncia del petrolio proveniente dall’Iran.
Il secondo fattore è legato alle scelte della Cina. Visto lo scenario internazionale, Pechino è chiamato alla prova di responsabilità verso la comunità internazionale, ma le risposte arrivate fino ad ora sono state ambigue. Lo scenario auspicabile è che anche la Cina riduca le proprie importazioni di petrolio (il 20% del greggio iraniano va in Cina), ma lo scenario più preoccupante è che Pechino colga l’occasione per mettere le mani sulla quota di petrolio che andava verso l’Europa (un altro 20%). Il rischio è quello di un oil swap che porterebbe alla Cina più petrolio e magari anche ad un prezzo di riconoscenza per aver aiutato Teheran in un momento difficile.
La terza complicazione è dovuta al rialzo del prezzo del petrolio. Nonostante la pressione sui paesi produttori ad aumentare le esportazioni e gli auspici di molti affinché Europa e Stati Uniti mettano sul mercato parte delle loro riserve, il prezzo del greggio è salito alle stelle, toccando il massimo dal dicembre 2008, ovvero 126 dollari al barile. Solo tre mesi fa, sempre secondo i dati forniti dall’Opec, il prezzo era sotto i 103 dollari al barile. Un incremento notevole considerato il brevissimo lasso di tempo, mentre alcuni prevedono che per fine maggio il prezzo potrebbe sfondare il muro dei $150, raggiungendo i picchi del 2008.
Un tale rialzo avrebbe conseguenze durissime per quelle economie che stanno faticando molto ad uscire dalla crisi finanziaria e potrebbe, ironicamente, addirittura annullare l’effetto sull’economia iraniana nel caso in cui le esportazioni diminuissero meno dell’aumento del prezzo del petrolio.
L’ultimo, ma non meno importante, fattore è quello umanitario. È probabile che l’economia iraniana subisca un duro colpo e che i servizi erogati dal governo non bastino a sostenere la popolazione in un momento difficile. Aumento dei prezzi, disoccupazione e crisi economica avranno conseguenze gravi sugli iraniani di cui Stati Uniti ed Europa saranno chiamati a rispondere.
Se la colpa delle sofferenze della popolazione verranno attribuite all’Occidente, allora le sanzioni contribuiranno a consolidare il potere di Ahmadinejad e renderanno il paese ancora più determinato nel completare il programma nucleare.
Le sanzioni imposte da Stati Uniti ed Unione Europea contro l’Iran sono certamente una decisione importante. Il petrolio è una risorsa fondamentale e non averla messa al centro delle sanzioni fu considerata una mancanza di determinazione da parte dell’Occidente.
Ora che il petrolio è oggetto di embargo e ci sarà certamente un impatto economico sull’Iran, la questione più importante torna ad essere quella centrale che ha alimentato il dibattito sull’efficacia delle sanzioni sin dall’inizio: sarà sufficiente imporre un alto costo economico sull’Iran per raggiungere l’obiettivo politico di fermare il programma nucleare? Considerate le difficoltà illustrate e l’esperienza di anni di sanzioni, la soluzione della crisi iraniana non pare dietro l’angolo.
Francesco Giumelli è Assistant Professor alla Metropolitan University Prague e già Jean Monnet Fellow, The Robert Schuman Centre for Advanced Studies, European University Institute.