Crisi, lavoro, reddito e fiscalita’, oggi in Italia

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I dati del mercato del lavoro si sono aggravati nell’anno 2012. Oggi, le ultime rilevazioni Istat ci dicono che il tasso di disoccupazione è al 10,1% con un numero di disoccupati pari a 2.584 mila; il tasso reale è superiore, perché vanno aggiunti gli oltre 250.000 lavoratori in cassa integrazione. La disoccupazione giovanile è al 36,2%, mentre il numero dei N.E.E.T. è salito alla preoccupante quota di 1,5 milioni.

A Maggio 2012 gli occupati sono 23.034 mila (+ 0,3% su Aprile equivalente a 60.000 unità in più). Il tasso di occupazione è pari al 57,1%.

Con la crisi, i contratti a tempo determinato hanno raggiunto il 13,4% del totale dell’occupazione ed i contratti a part time il 15,2%. Di questi ultimi, circa la metà non sono part time scelti dal lavoratore; sono chiamati con le nuove indicazioni Eurostat i “sottoccupati part time”.

Dall’indagine previsionale Excelsior di Unioncamere e Ministero del Lavoro sul terzo trimestre del 2012, emerge che meno di due assunzioni su dieci sono a tempo indeterminato. Infatti, nel periodo luglio-settembre, le assunzioni stabili previste sono appena il 19,8%. Il posto fisso nelle assunzioni sta ormai diventando residuale.

Negli ultimi giorni l’Ufficio Studi della Cgia di Mestre ha pubblicato un’analisi che rileva che i lavoratori con contratto a termine sono 3.315.580 e guadagnano 836 € netti mensili (media tra i 927 € dei maschi e i 759 € per le donne). Di essi, il 39% ha la licenza media, il 46% ha un diploma di scuola media superiore e solo il 15% ha la laurea.

Questi lavoratori non standard e precari sono per il 34% nel pubblico impiego, con punte di 514.814 unità nella scuola e nella sanità, e di 477.299 unità nei servizi pubblici ed in quelli sociali. Sono invece 119.000 quelli direttamente nello Stato, regioni, enti locali. Gli altri settori a più forte presenza di questi lavoratori atipici sono il Commercio con 436.842 unità, i Servizi alle imprese con 414.672, il Turismo con 337379. Il 35,18% di essi (1.108.000 unità) operano nel Sud con le maggiori concentrazioni in Calabria, Sardegna, e Sicilia.

I dati dell’Inps, invece, ci sono di aiuto per monitorare i dati della disoccupazione e della Cassa Integrazione Guadagni (CIG), altri indicatori della situazione di crisi.

A Maggio 2012, ci sono state 72.000 domande di disoccupazione, (+ 6,7% sul 2011), e 8.500 richieste di mobilità. Le ore di CIG autorizzate sono state 105,5 milioni a Maggio e 95,4 milioni a Giugno 2012. Rispetto a Giugno 2011 le ore sono aumentate del 16,2% (erano infatti 82,1 milioni di ore).

L’incremento maggiore è quello della CIG Ordinaria Giugno 2012 sull’anno precedente. L’aumento è stato del + 65,7% ed è tutto relativo al settore Industriale (+ 77,6%); è meno rilevante nel settore Edile (+ 38,5%). L’intervento della CIGS è, per lo stesso periodo esaminato, aumentato del + 10,9%; la CIG in deroga è invece in diminuzione del – 20,1%.

Ad Aprile 2012 il numero dei lavoratori nelle grandi imprese, al netto dei dipendenti in CIG, è diminuito dello 0,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Le ore lavorate diminuiscono, per dipendente, del 2,6%.

Per quanto riguarda la cosiddetta “demografia d’impresa”, le imprese nate nel 2010 sono state 265 mila, quasi 24 mila in meno rispetto al 2009. I settori che vedono una diminuzione nella creazione di nuove imprese sono le Costruzioni e gli Altri servizi, mentre le tendenze al rialzo riguardano l’Industria ed il Commercio.

Nel primo Trimestre 2012, nelle imprese con almeno 10 dipendenti, le ore pro capite lavorate sono aumentate dello 0,2% sullo stesso periodo del 2011. Si va dal – 0,1% per l’Industria al + 2,3% per Finanza ed Assicurazioni, al +2,2% per Informazione e Comunicazioni e al + 0,6% nei Servizi.

Da notare che l’aumento delle ore lavorate convive con gli organici già fortemente diminuiti e con la presenza di 36 ore medie ogni 1.000 ore lavorate, di CIG (da 63,4 ore nell’Industria alle 11,7 ore nei Servizi). E’ solo nelle grandi imprese che ad Aprile 2012 su Aprile dell’anno precedente, si registra una diminuzione del – 2,6% del numero di ore lavorate per dipendente.

Secondo la Banca d’Italia, le busta paga dei dipendenti sono ferme. Le retribuzioni medie reali nette, dal 2000 al 2010, sono aumentate solo di 29 euro, da 1.410 a 1.439 euro (+2%). Va ricordato che nel periodo considerato, 2000 – 2010, il tasso di inflazione, somma dei 10 tassi annuali, è stato del 24,2%. Sulle retribuzioni pesano la crisi economica, la fiscalità e gli interventi che hanno toccato più pesantemente gli statali. Dai dati emerge che la differenza tra centro-nord e sud-isole aumenta: + 2,5% contro il + 0,7%.

La riduzione in termini reali, in quattro anni dal 2007 al 2010, è stata di 50 euro (-3,3%).
Tra il 2008 e il 2010 le retribuzioni reali mensili pro capite dei lavoratori a tempo pieno, al netto di imposte e contributi sociali, sono cresciute dello 0,8%.

Sempre più preoccupanti sono anche i dati che arrivano dall’Istat sulla povertà nel nostro paese. Nel 2011 infatti l’11,1% delle famiglie (8.173 mila persone) è risultato in condizione di povertà relativa. Il 5,2%, pari a 3.415 mila persone, è in condizione di povertà assoluta.

Il limite della povertà relativa per una famiglia di due persone è fissato a 1.011,03 €. Rispetto al 2010 sono peggiorate le condizioni delle famiglie dove non vi sono redditi da lavoro o dove vi sono operai, mentre sono migliorate nelle famiglie di impiegati e dirigenti. Aumenta sia la povertà relativa che assoluta nelle famiglie senza occupati e ritirati dal lavoro, o con tutti i membri ritirati dal lavoro, per gli anziani soli o due anziani in coppia.

Più basso è il titolo di studio o il profilo professionale del capofamiglia, più è probabile la caduta verso la povertà assoluta. Peggiora anche la condizione delle famiglie con un figlio minore.

Mentre la povertà relativa è stabile al Centro Nord, nel Mezzogiorno essa aumenta nel 2011 al 23,3%, contro una media nazionale all’11,1%. Le regioni dove la povertà è più diffusa sono la Sicilia (27,3%) e la Calabria (26,2%). Al Sud quasi 1 famiglia su 4 è quindi povera. Sempre nel Mezzogiorno, la spesa media equivalente delle famiglie povere è 785,94 € al mese.

Da notare anche il 7,6% delle famiglie appena sopra la soglia di povertà. Queste potrebbero, a fronte di una spesa imprevista, cadere nella povertà.

Sul versante dei consumi delle famiglie, nel 2011 la spesa mensile media per ogni famiglia è stata di 2.488 € (+ 1,4% rispetto al 2010). Di questa cifra 477 € medi sono per acquisto di generi alimentari e bevande. Nel Nord questa cifra è del 16,6%, mentre nel Sud continua a crescere ed è del 25,6% della spesa totale. La spesa non alimentare è pari a 2.011 € medi mensili, dove diminuiscono abbigliamento e calzature e aumentano le spese per abitazione e trasporti.

La spesa mensile media più alta è in Lombardia (3.033 €), segue il Veneto (2.903 €) mentre all’ultimo posto c’è la Sicilia con 1.637 €, quasi 1.400 € mensili di differenza dalla Lombardia. E’ opportuno riflettere sul rapporto tra questa distanza abissale nella differenza sul reddito e le notizie sulla possibile bancarotta della Regione Siciliana!

Per quanto riguarda invece il risparmio delle famiglie, nel primo trimestre del 2012 è stato del 9,2% (+0,4% sul primo trimestre 2011). Al netto dell’inflazione il potere d’acquisto delle famiglie è stato del – 2%, sempre sullo stesso periodo di riferimento.

Nel primo trimestre del 2012 la quota di profitto delle società non finanziarie (rapporto tra il risultato lordo di gestione e il valore aggiunto lordo) è scesa al 38,8%, con una diminuzione del 0,9% sul trimestre precedente. Tale risultato è conseguenza del risultato lordo di gestione, diminuito del 4,1%, in misura maggiore del valore aggiunto (-1,8%). In termini tendenziali, il tasso di profitto è diminuito del 1,3%.

Nel primo trimestre del 2012 il tasso di investimento delle società non finanziarie (rapporto tra gli investimenti fissi lordi ed il valore aggiunto lordo) è stato pari al 21,6%, il -1,2% rispetto allo stesso periodo del 2011. Gli investimenti fissi lordi delle società non finanziarie hanno segnato una flessione del 7,4% rispetto al corrispondente trimestre del 2011.

Oggi la stretta fiscale frena la ripresa economica. Diminuisce il consumo privato perché diminuisce il potere d’acquisto ed il numero di occupati e cala il tasso di investimenti. Scende infine del 2% in rapporto al PIL, la spesa pubblica, con conseguenze ovvie sugli investimenti pubblici. L’accesso al credito sempre più problematico rallenta a sua volta l’andamento dell’economia.

Più la BCE dà liquidità, praticamente gratis, al sistema bancario, più le stesse banche aumentano i tassi ai clienti ed ergono barriere al credito, in particolare alle PMI. Questa è una delle ragioni che spinge alla riduzione degli investimenti privati, con le inevitabili conseguenze per la produzione e l’occupazione.

Il PIL nel 2012 scenderà prevedibilmente del 2%, mentre il debito pubblico ha raggiunto oggi i 1.966 miliardi di € (33.000 € per ogni singolo cittadino). Secondo stime autorevolissime, a fine 2012, il debito potrebbe raggiungere il 126% del PIL.

Per ridurre il deficit il Governo ha anche aumentato la pressione fiscale che, secondo le stime dell’Ufficio studi di Confcommercio, raggiungerà nel corso di quest’anno il 55%. Questo vuol dire che ciascuno di noi lavora annualmente fino all’8 o 9 di Luglio per lo Stato e solo successivamente per il proprio reddito. In questa situazione crescono sicuramente i “Giannino” di turno, anche se i muli più carichi e più silenti non sono i padroncini o le partite IVA che qualche via d’uscita l’hanno, ma quelli con sostituto d’imposta che non possono evadere (anche se lo vorrebbero e lo possono fare solo in situazioni di nero o di grigio): i precari, non standard, pensionati, operai, impiegati, quadri, dirigenti che vedono mese dopo mese Stato, Regione e Comune attingere a quote sempre crescenti dalla propria busta paga.

Di fiscal drug non se ne parla da anni, mentre si pagano anche le imposte sulle imposte. Da mesi, da molte parti si è messo l’allarme sul rischio che caricando eccessivamente sull’austerità si sarebbe arrivati alla recessione. E ci siamo in pieno. Con la recessione, i professori dovrebbero saperlo, si allontana la ripresa e il risanamento.

E soprattutto è diventato sempre più inaccettabile che sfuggano centinaia di miliardi al fisco ogni anno, senza che i nostri tecnici (gli unici che potrebbero, avendo la forza delle debolezze altrui) propongano per decreto di assumere le regole del sistema fiscale, certo non rivoluzionarie, a scelta di USA, Germania, Francia, Danimarca…

Classi politiche, caste, oligarchie, ordini, lobbies e logge, congregazioni, governanti palesi ed occulti dovrebbero aver capito che l’italiano può cancellare la politica a beneficio dei movimenti 5 Stelle di turno, dell’astensione di massa e del qualunquismo. A meno che qualcuno dei suddetti abbia capito molto bene e si auguri proprio il peggio pur di non toccare equilibri e privilegi.

Professor Monti, per favore domani emani un Decreto Legge con un solo articolo: “ Si sostituisce il sistema contributivo, fiscale, e quant’altro e le pene relative, con quello degli USA (o a piacere della Germania)”. Forse sarà più facile che fare una patrimoniale?

Qual è il punto di rottura della coesione e sostenibilità sociale? Con un debito che vola verso i 2.000 miliardi di €, gli interessi si assesteranno attorno ai 90-100 miliardi annui, a cui si aggiungeranno 50 miliardi circa l’anno per effetto dell’approvazione del “Fiscal compact” (Trattato sulla stabilità) e delle sue 6 regole d’oro:

1. deficit massimo allo 0,5% del PIL;

2. con un debito superiore al 60% del PIL c’è un tempo massimo di 20 anni per rientrare al di sotto con un ritmo pari ad un ventesimo della quota eccedente per anno. Nel nostro caso un debito ipotetico del 126% da ridurre al 60% in 20 anni significa pagare un 3,3% l’anno, forse attorno o più di 50 miliardi l’anno, oltre all’interesse sul debito ed al debito;

3. correzione automatica del bilancio in caso di scostamento;

4. rapporto deficit/PIL al di sotto del 3% come previsto dal Patto di stabilità e crescita;

5. vincoli da inserire nella Costituzione o in legge ordinaria;

6. due vertici appositi l’anno dei 17 paesi dell’Eurozona.

La legge Costituzionale n.1/2012 (che ci siamo imposti da soli con la lettera del Governo Berlusconi; per gli altri basterà una legge ordinaria, quando lo faranno) ha introdotto l’8 Maggio scorso il pareggio di bilancio in Costituzione a tamburo battente.

Va ricordato che qualche anno fa la Germania, in difficoltà, non applicò le regole che le imponevano vincoli di bilancio. Siamo stati il primo paese a recepire obiettivi che diventeranno una corda al collo per il Paese.

Con un PIL in caduta, una diminuzione conseguente delle entrate fiscali, 100 miliardi di interessi l’anno più 50 miliardi per il Fiscal compact, il recupero dal debito diventerà insostenibile.

Non basteranno sicuramente né i 120-130 miliardi previsti dal Piano per l’Europa, per la crescita e l’occupazione, né il Meccanismo europeo di stabilità (a partire dallo scudo anti spread) che vede i tedeschi pronti ad approvarlo quando l’Euro avrà tirato le cuoia.

Se il dilemma è tra sviluppo o fallimento, con la situazione evocata e con la recessione in casa e forse anche alle porte dell’Europa e di altre aree mondiali, la medicina del Governo Monti, dell’UE, della BCE, del FMI e del governo ombra europeo di Berlino, non sarà solo amara, sarà mortale.

Difficile pensare di uscire da questa situazione ripetendo come un mantra sviluppo, occupazione, lavoro per i giovani, mezzogiorno. Occorrerebbe trovare un equilibrio tra risanamento e ripresa: va ridotto il debito senza compromettere la crescita economica, come invece purtroppo si sta facendo.

Le misure di risanamento, necessarie, non sono pensabili senza sostegno alla domanda interna e senza la ripresa di investimenti pubblici per ricreare occupazione non assistita. Partendo dalle PMI, uniche a saper creare occupazione, con finanziamenti mirati e agevolando il credito anche con i finanziamenti della BCE, si avrebbero risultati sicuri in tempi relativamente brevi.

Andrebbero poi sbloccati i pagamenti della pubblica amministrazione ed aboliti i vincoli degli Enti locali “virtuosi” sui Patti di stabilità, facendo così partire investimenti per migliaia di progetti di piccola e media portata, ma capaci di rilanciare il lavoro sul territorio per le piccole imprese, con certi risultati sul fronte occupazionale.

Quando manca il lavoro servono cose simili a quella descritta, come per esempio, non tagliare i trasferimenti agli Enti locali che sostengono il lavoro di migliaia di addetti della cooperazione che prestano servizi indispensabili per le comunità. Non basterà più John Maynard Keynes da solo in una fase postindustriale come la nostra, ma neppure va mandato in soffitta. Oggi non basta più dire che bisogna creare lavoro: bisogna pensare a iniziative nuove e non ordinarie per ripartire il lavoro ed il reddito esistente.

Sul versante della riforma del mercato del lavoro il Paese avrebbe avuto bisogno di una riforma ben diversa, sugli ammortizzatori sociali, in senso universalistico, sulle politiche attive e sul contrasto alla precarietà. Stiamo, invece, vedendo i risultati disastrosi di questi giorni sul mercato del lavoro (mentre si dice che il contratto centrale è quello a tempo indeterminato, l’80% delle assunzioni è di tipo precario e non standard). Sul versante dell’occupazione le riforme approvate (pensioni, mercato del lavoro) si riveleranno, purtroppo, dannose.

 

 

Ferruccio Pelos, Associazione NUOVILAVORI

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