Etica & Democrazia

Etica-e-democrazia L’intervista di fareCentro all’On. Paola Binetti

Paola Binetti, parlamentare Udc ed esponente di punta dei cattolici impegnati in politica, ha da poco dato alle stampe il suo ultimo libro dal titolo “Etica e democrazia” (Ed. Lindau, 2012). È un libro ricco di contenuti e spunti di riflessione, come ben messo in luce dalla prefazione di Ernesto Galli della Loggia e dall’introduzione di Rocco Buttiglione, che di seguito riportiamo. 

fareCentro ha rivolto qualche domanda all’Autrice, che ringraziamo.

On. Binetti, il suo saggio è assai corposo, ma potremmo forse dire che la tesi che lo attraversa è che la democrazia si fonda sull’etica ovvero che non c’è democrazia senza etica?

La democrazia, forma di governo capace di coinvolgere tutti i cittadini liberi nelle decisioni che riguardano la città, risale ai tempi di Atene e presuppone che il criterio guida sia rappresentato per tutti dalla ricerca del bene comune della Polis.

La partecipazione al governo della città è in funzione diretta della capacità e della volontà di fare il bene di tutti. Non c’è quindi democrazia senza un forte senso morale in chi governa: un senso morale che si costruisce intorno a due valori cardine: il concetto di bene e la destinazione universale di questo bene. Perché c’è il rischio di farsi trascinare da una ricerca affannosa del proprio interesse personale, estendendolo tutt’al più a quello dei propri amici e familiari e strumentalizzando gli altri al conseguimento dei propri obiettivi. E’ evidente che quando ciò accade non siamo più davanti ad una forma di democrazia, ma siamo tornati indietro, verso una forma più o meno grossolana di tirannia.

La complessità oggettiva di processi socio-economici globali, la conflittualità intrinseca di certe lobby necessariamente parziali, i limiti della propria soggettività, non sempre in grado di individuare nella pluralità delle soluzioni possibili, quella che più e meglio risponde ai canoni di bene comune, tutto ciò rende indispensabile ricondurre l’analisi dei problemi nel quadro culturale della dottrina sociale della Chiesa, in una logica di confronto tra le diverse posizioni, spesso dialetticamente vivace, ma sempre alla ricerca di quel Bene che più e meglio rappresenta l’interesse generale.

Se in coloro che governano prevale l’arroganza e la prepotenza; se lo studio delle questioni è affrontato superficialmente, senza riflettere sulle conseguenze di certe scelte; se chi potrebbe difendere gli interessi dei più fragili manca di coraggio, di capacità argomentativa o molto più semplicemente di tenacia e di determinazione allora la democrazia cessa di essere tale e si risolve in una oligarchia, mossa esclusivamente dai propri interessi. Le conseguenze di queste scelte sono sotto gli occhi di tutti e si chiamano corruzione e concussione, falso in bilancio, scandalosa distrazione di fondi, ossia offrono ad una paese l’immagine di una democrazia che ha tardito se stessa e che in definitiva sembra far pensare a molti: e perché io no…., perché non posso evadere le tasse, perché non posso appoggiarmi ad una raccomandazione, perché non posso offrire una mazzetta in cambio di un posto di lavoro, per me, per mio figlio…Senza etica non c’è democrazia e senza democrazia non può che esserci tirannia, per questo dobbiamo ricominciare ognuno di noi da noi stessi e poi contagiare gradatamente, ma con la forza di una vera e riria epidemia morale chi ci sta accanto…

 

Lei sostiene che occorre innanzitutto un codice etico condiviso per i politici, al di là delle appartenenze, basato sui principi del diritto naturale. Lei pensa anche a strumenti specifici, tra i quali il “codice etico” per i parlamentari?

La grande scoperta che gli uomini hanno fatto subito dopo la seconda guerra mondiale è stata quella che di comprendere che era possibile trovare un accordo per stendere insieme la Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo. Stessi diritti per tutti, perché la dignità dell’uomo è una sola e merita l’impegno di una tutela universale. Dove un uomo soffre, tutti soffrono per lui, dove un uomo vede mortificata la sua libertà, la libertà di tutti è in pericolo. Una premessa molto semplice e soprattutto straordinariamente convincente. Si potrebbe pensare che si è arrivati a queste conclusioni, che in realtà sono la premessa dell’intero documento, solo perché ci si è messi d’accordo: tutti i saggi convenuti hanno trovato un punto fermo da cui partire. Per molti si tratta di un accordo reso possibile da una analoga visione della natura dell’uomo e quindi dalla ferma convinzione che ci sia una legge naturale che ne regola l’orientamento verso la sua felicità. Una legge, che è sintetizzabile in quei principi primi cari agli antichi filosofi morali: fai il bene e fuggi il male, perché solo così troverai la tua felicità e renderai possibile quella degli altri. Un codice etico non è altro che un tentativo strutturato di articolare questi due impegni fondamentali, intercettando quali sono le provocazioni più difficili da affrontare nel tempo che si vive.

Se la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo non entra nel vivo del dibattito tra giusnaturalisti e giuspositivisti, pure segnala con tanta forza i diritti di tutti, in tutti i luoghi e tutti i tempi, da spendere una lancia tutt’altro che irrilevante a favore dell’ipotesi giusnaturalista. Ma è chiaro che se ci sono voluto tanti secoli per giungere ad una formulazione organica di questi diritti, è perché l’uomo deve ripercorrere continuamente il cammino marcato dalla sua razionalità. Deve procedere per prove ed errori, per ipotesi e verifiche, ma oggi credo che lo stesso assetto della crisi vertiginosa da cui il nostro paese sta cercando di emergere fa dire al Presidente della Repubblica e a Benedetto XVI, a Mario Monti e al Cardinal Bagnasco, che senza un forte e precisio impegno a dotarsi di un codice etico condiviso, è probabilmente impossibile emergere dalla palude in cui siamo precipitati. D’altra parte sono almeno 75 i colleghi che alla Camera hanno voluto sottoscrivere la proposta di un Codice etico che faccia da apripista alle nuove generazioni di politiche che nell’arco di meno di un anno approderanno in parlamento.  La politica può ricominciare a vivere con la dignità che le compete, purché abbia l’umiltà di riconoscere i suoi errori e si impegni a muoversi verso una nuova concezione della politica.

 

C’è però anche il problema della carenza individuale delle condotte. Infine, l’abbandono del principio “non fare ad altri ciò che non vuoi venga fatto a te”, secondo Kant alla base della morale e dello stesso precetto cristiano “ama il prossimo tuo come te stesso”, è spesso frutto di una crisi di fiducia, di fiducia nell’altro, che mina la coesione sociale. È curioso che oggi resista o cresca la fiducia nel rischio finanziario e del pari diminuisca la fiducia nell’uomo?

Non so bene cosa intenda parlando di fiducia nel rischio finanziario che a parer suo cresce, mentre diminuisce la fiducia nell’uomo…  Io credo che capovolgerei questa proposizione e direi che l’uomo oggi ha toccato con mano tutto il rischio della crisi finanziaria a livello personale, aziendale ed istituzionale, mentre comprende che solo la solidarietà familiare e la rete dei rapporti umani significativi possono salvarlo. Alla base della crisi finanziaria c’è una avidità che porta a strumentalizzare qualsiasi rapporto umano, con l’unico obiettivo di raggiungere un arricchimento rapido e consistente. Ci si improvvisa esperti, senza minimamente conoscere neppure la storia economica più recente e si immagina di poter carpire la buona fede dell’altro, perché non si vede più in lui qualcuno uguale a me, ma altro da me. L’altro appare assorbito in un profilo di stampo utilitaristico, per cui vale e merita di essere preso in considerazione nella misura in cui è funzionale ai miei obiettivi. Un’etica di stampo utilitaristico che circoscrive l’altro nei confini della sua utilità, corre il rischio di lasciare dietro di sé molti “cadaveri”. Da quelli, appunto di colleghi ed interlocutori che non mi servono più, a quella di malati e disabili, che non sembrano più in condizione di offrire un servizio utile agli altri. L’etica che io ho in mente quando penso alla nuova democrazia di cui il Paese ha urgente bisogno, è l’etica personalistica che considera l’altro come u bene in se stesso e affida in un approccio solidale ad ognuno di noi la responsabilità degli altri. La forza della Polis è tutta nella certezza che hanno i suoi cittadini, convinti che ad un impegno forte e generoso, competente e innovatore, corrisponderanno nell’arco degli anni delle misure efficaci di cura e di tutela anche per loro. Solidarietà e sviluppo sono il fondamento della Dottrina sociale della Chiesa, sempre impegnata in un continuo processo di riforme che rendano più giuste le leggi e più concreti gli interventi a vantaggio delle persone più fragili.

Certamente il riferimento a Kant, al Vangelo, servono a non perdere mai di vista che ogni politica, economica o sociale, culturale o lavorativa, ha bisogno di esplicitare il suo modello antropologico, per sapere a chi mi sto rivolgendo, con quali obiettivi o per lo meno con quali categorie, per ottenere quali risultati… E’ la nostra sfida in questo anno di preparazione alle elezioni… 

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Dalla PREFAZIONE di Ernesto Galli della Loggia al libro ETICA & DEMOCRAZIA

«In omaggio alla sincerità e alla chiarezza comincerò con il dire che provo un certo fastidio per l’uso del termine “laicità” che ricorre così di frequente nelle pagine del libro. Un termine fino a qualche anno fa abbastanza raro che però ha preso nuovo slancio dalla metà degli anni ’90, allorché esso ha cominciato a essere adoperato con sempre maggiore insistenza, in Italia e fuori (ma direi in particolar modo da noi), da parte di chi in genere lo faceva per lamentarne l’assenza. Erano per l’appunto alcuni settori della cultura e dell’opinione “laica”, quasi sempre “di sinistra”, che in quel giro di tempo si trovavano nella necessità di dover riempire con nuovi materiali il vuoto lasciato dal naufragio del loro precedente impianto ideologico di marca progressista – più o meno incentrato quasi sempre sul “marxismo” e sul “socialismo”, qualunque cosa queste due antiche parole volessero ormai dire. Questi nuovi materiali ideologici, affermatisi sulla fine del secolo scorso, consistevano grosso modo in tre blocchi di pensiero: in una nuova e accresciuta diffidenza verso la religione (vista come matrice inevitabile d’intolleranza e di fondamentalismo), nel rifiuto di ogni tematica identitaria e valoriale con radici nella tradizione storica occidentale (in quanto oggettivamente “discriminante” verso le cultura non occidentali), e infine in una sempre più insistita enfasi sulla dimensione dei “diritti” a tutela di una sempre maggiore espansione della soggettività. Materiali abbastanza eterogenei che però, anche per suffragare il proprio preteso carattere post-ideologico, sono stati rapidamente organizzati entro una prospettiva unica la quale ha voluto presentarsi come ragionevolmente e semplicemente illuminista, pacificamente cosmopolita, “laica” per l’appunto (con l’implicito ma ovvio sottinteso che chi non ne avesse condiviso i contenuti non poteva che essere un “non laico”, cioè uno schiavo dei pregiudizi, delle ideologie o di qualche fondamentalismo religioso).

A questa disposizione culturale genericamente orientata alla “laicità”, comune un po’ a tutte le società dell’Occidente, si è aggiunto in Italia un ulteriore elemento. E cioè il fatto che, finita la presenza della Democrazia cristiana, il ruolo socio-culturale di questa è stato in certa misura preso direttamente dalla Chiesa. Tanto più in quanto, proprio in quegli anni, l’agenda e la discussione politiche sono venute sempre più affollandosi di temi (come quelli bioetici o dei diritti degli omosessuali) concernenti evidentemente anche l’ambito etico-religioso. Da qui – specie sotto la guida della Conferenza episcopale italiana da parte del cardinale Ruini – un impegno ancor più forte e diretto della Chiesa nella discussione pubblica e la sua decisa discesa in campo a favore di questa o quella soluzione. E da qui, dunque, inevitabilmente, anche un’ostilità per le sue “ingerenze”, e perciò la rivendicazione della laicità dello Stato. In complesso, per l’appunto, una crescente tematizzazione della “laicità”.

Da allora il comandamento della laicità domina il nostro tempo. E lo domina, me lo si lasci dire, anche perché nei confronti del discorso e della cultura della società contemporanea il discorso cattolico ha dimostrato (ancora una volta?) una permeabilità che perlomeno ai miei occhi ha tutta l’aria di essere parente stretto della subalternità. Cosicché pure la Chiesa si è messa da tempo a parlare a tutto spiano di “laicità”, sforzandosi però di addolcirne i contenuti e correggerne quelli a lei sgraditi con l’aggiungere al termine “laicità” appendici come “sana”, “ben intesa” e altre simili. Appendici che tuttavia, a mio parere, conservano un contenuto concreto sostanzialmente oscuro, e non si capisce che cosa esattamente intendano se non “la laicità che va bene a me”, o vale a dire “quella che si accorda con tutto ciò che io penso”.

Confesso che le molte pagine dedicate all’argomento dal libro di Paola Binetti (dove si auspica una laicità “serena ed equilibrata”) non mi hanno liberato da questa mia impressione. Infatti, la formula famosa “a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, anche da lei indicata come quella in fin dei conti chiarificatrice di ciò che dovrebbe essere una “sana laicità” a me pare non chiarire molto. D’accordo: a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Ma che cosa è di Cesare, e che cosa è di Dio? E chi stabilisce i criteri della ripartizione? Il problema vero è questo, e resta insoluto. È un po’ l’identica cosa che accade con l’altra formula egualmente famosa ed egualmente adoperatissima da chi pensa che in questa materia la soluzione alla fine sia relativamente semplice. Mi riferisco, come si sarà capito, a “Libera Chiesa in libero Stato”; formula anch’essa che lascia impregiudicato proprio ciò che invece conta: e cioè chi tra lo Stato e la Chiesa definisce contenuti e limiti delle rispettive libertà, e con quali criteri.»

  

Dall’INTRODUZIONE di Rocco Buttiglione al 

libro ETICA & DEMOCRAZIA

 

«Paola Binetti rende ragione davanti ai suoi lettori (e anche, naturalmente, ai suoi elettori) dei criteri culturali, dei principi e dei valori che sostengono la sua azione politica. Contemporaneamente formula la sua proposta politica. Si tratta di una proposta di contenuti ma si tratta anche di una proposta di metodo, che può incontrare consenso anche molto al di là dell’ambito di coloro che condividono con l’on. Binetti una comune visione politica.

La parole che ricorrono più di frequente in questo testo sono le parole laico e laicità. Paola Binetti si sente orgogliosamente laica e della propria laicità fa la base non solo della propria azione ma anche della sua stessa identità politica. Bisogna però comprendere esattamente che cosa Paola Binetti intenda con la parola laicità. Questa parola è stata infatti usata in molti modi e con molti significati in periodi diversi e anche in contesti culturali diversi, come fa notare Galli della Loggia nella bella Prefazione che viene premessa al volume. Nell’800 i laici sono i liberi pensatori che si emancipano dalla tutela che la Chiesa esercitava sull’intelligenza umana. Allora però si pensava che il libero pensiero possedesse una sua propria forza di gravità che induceva tutti i liberi pensatori, alla fine della loro ricerca, a convergere sulla medesima verità. La verità del libero pensiero era la verità della scienza. I laici sostituivano ai dogmi della fede i dogmi della scienza. Sulla scienza dovevano fondarsi anche la politica e lo Stato. La scuola pubblica, in particolare, doveva educare le giovani generazioni al culto della ragione scientifica. Il laicismo coincideva allora con un credo antireligioso. Alla presa di questo laicismo ha tentato di sottrarsi la filosofia kantiana della coscienza morale che ha ispirato autori come Alain in Francia o Norberto Bobbio in Italia. Nel confronto interno alla prima forma di laicismo essa è però risultata perdente.

La prima forma di laicismo è andata incontro a uno scacco storico. Chi meglio di tutti ce ne ha dato le ragioni è stato K. Popper (e in Italia Dario Antiseri). La scienza è un modello esplicativo della realtà che da un lato la rende calcolabile (e quindi è la base della tecnologia), dall’altro però inevitabilmente la deforma e la semplifica. La struttura stessa dell’impresa scientifica fa in modo che la scienza non possa mai pretendere né di trasformarsi in filosofia né di sostituire le antiche religioni. Se ci prova i risultati sono disastrosi. Di qui la critica di tutte le ideologie che hanno preteso di sviluppare una «concezione scientifica della realtà». La realtà è sempre, per principio, più ricca di determinazioni che non la teoria (scientifica).

Da questa crisi della scienza occidentale formalizzata da Popper (ma anticipata da Husserl) nasce un secondo significato di laico e di laicità (che è quello a cui fa riferimento Galli della Loggia). Chi credeva che l’unica verità fosse quella della scienza, quando la scienza si rifiuta di fornirgli una verità, rimane senza nessuna verità. Alla crisi dell’idea stessa di verità sopravvive una sola verità, e questa è che non c’è nessuna verità. Il relativismo etico diventa la nuova forma della laicità. Di questa laicità Galli della Loggia giustamente diffida, rifiuta di lasciarsi prendere prigioniero da essa e sospetta nel discorso di Paola Binetti sulla laicità una subordinazione all’avversario pur nell’opposizione.

A me sembra però che affatto diverso sia il discorso di Paola Binetti (e, quanto a questo, del cattolicesimo italiano di questi ultimi anni) sulla laicità.»

 

Dal libro ETICA & DEMOCRAZIA

«Il tempo sembra maturo per affrontare senza tabù, ma anche senza inutili nostalgie, una domanda concreta sul posto dei cattolici in politica e su come un cattolico debba caratterizzare la sua presenza nel contesto in cui vive, a livello sociale, culturale e politico. I riduzionismi non hanno mai aiutato a comprendere come l’impegno «cattolico» non possa che essere universale, a tutto campo, come lo stesso termine «cattolico» suggerisce. Se la promozione delle politiche sociali costituisce un aspetto essenziale della solidarietà e della fraternità umana, valori inscindibili nello stile di vita di un cattolico, che faccia o meno politica attiva, la consapevolezza che la vita è la nuova questione sociale del nostro tempo non può in alcun modo essere ignorata o disattesa. Connotare la presenza cattolica solo con un profilo di contrasto alla povertà e di inclusione sociale, caratterizzata da un nuovo patto intergenerazionale, è condizione necessaria, anzi decisamente prioritaria, ma non sufficiente. Finché vita e famiglia, impresa e lavoro saranno considerati come binari paralleli, senza coglierne tutte le forti e reciproche implicazioni, è difficile immaginare quale possa essere il posto dei cattolici in politica. Li si immaginerà come meglio collocati da un lato o dall’altro a seconda del tema in questione, accettando che ci si possa concentrare impunemente su alcuni temi trascurando gli altri, senza rendersi conto che questa è la deriva drammatica del nostro paese.

Forse occorre ricominciare proprio dal recupero di una sensibilità e di una mentalità che siano capaci di fare sintesi tra i temi sociali e antropologici, tornando all’unità di vita di chi si impegna a cercare soluzioni per una molteplicità di problemi, solo apparentemente diversi tra di loro, ma in realtà legati da un unico filo che è la comune esperienza della nostra umanità. Per questo possono avere ragione molte persone che in perfetta buona fede non riescono a comprendere in cosa consista la specificità dell’impegno dei cattolici in politica. La promozione e lo sviluppo della dignità umana è qualcosa che precede e anticipa il messaggio cristiano, non è una questione di fede; è questione di una ragione capace di muoversi nella prospettiva del senso comune, senza pregiudizi. Ben attenta a capire in che cosa consista il bene di una comunità, il bene comune, per realizzarlo con energia e determinazione, senza cedere alle lusinghe del più forte. La ragione umana, con il rigore delle sue argomentazioni logiche, unita a una sensibilità, attenta alle fasce sociali più deboli, deve però lottare giorno per giorno per non restare schiacciata da logiche di parte, da interessi in perenne conflitto tra di loro, da un senso della giustizia che tende ad appannarsi. La sfida del cattolico che vuole fare politica nel miglior modo possibile comincia prima di tutto con il riaffermare la sua dignità personale di uomo retto e intelligente, generoso e leale. Si sente responsabile anche di chi da solo non è in grado di ottenere il rispetto dei suoi diritti, per questo mette in gioco la sua capacità di cogliere e di accogliere le vere necessità degli altri.

L’esigenza di aprire una nuova fase della politica italiana, dopo questi ultimi 20 anni, che tutti vorrebbero archiviare come una sorta di Medioevo della nostra Repubblica, ha aumentato il livello di attenzione nei confronti del ruolo che i cattolici potrebbero svolgere. La politica va ripensata ridimensionando la unidimensionalità economicistica e riscoprendo coraggiosamente le riforme che consentano di tornare a creare e a distribuire ricchezza. Ricchezza materiale ma anche ricchezza sociale e culturale, in cui il benessere percepito non sia solo quello di tipo economico. Senza dimenticare il debito di giustizia nei confronti delle nuove generazioni, a cui dopo aver dato una formazione qualitativamente esigente, bisogna offrire anche l’opportunità di mettersi in gioco al servizio del paese.»

 

Massimiliano Persemoli, Redazione fareCentro

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