Fiat: quale futuro?

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Dove andrà la Fiat se l’economia europea ristagnasse ancora a lungo? E che cosa farà Sergio Marchionne se alla stagnazione seguisse la scissione della moneta unica in un euro forte per la Germania e le economie satelliti e in uno debole per i paesi mediterranei, Francia compresa? La Fiat dei prossimi 10 anni, ramo automobili, avrà ancora il cuore e il cervello a Torino o trasferirà entrambi a Detroit?

Le tremende domande, poste dai mercati al ribasso, relegano gli aspri scontri sindacali con la Fiom nell’archivio degli avvenimenti minori: clamorosi per i media, emozionanti per le persone coinvolte, ben strumentalizzabili dai partiti politici in conflitto, sensibili per la vita democratica nella società civile, ma infine piccoli di fronte alle scelte strategiche di una multinazionale quale è ormai diventata la Fiat Auto.

La risposta alla prima domanda la leggiamo nei fatti. La Fiat sta scommettendo sugli Stati Uniti e sul Brasile. Lo sviluppo è sull’altra riva dell’Atlantico. Autentico in America Latina, dove i torinesi sbarcarono quarant’anni fa per produrvi automobili e autocarri e sono poi rimasti tra alti e bassi, talvolta spettacolari. Artefatto negli Usa, dove la Grande Crisi aveva fatto precipitare le vendite di automobili e pick up dai 17 milioni di pezzi del 2007 ai 9 milioni del 2009, ma dove la Casa Bianca le ha fatte risalire verso i 15 milioni pompando miliardi di dollari nelle case automobilistiche fallite di Detroit e nelle banche che finanziano gli automobilisti, fallite anch’esse.

Ma che importa se si vende perché, con alla testa quel geniale ex sindacalista di Lula, il Brasile ha trovato il suo domani o perché gli Usa, patria del liberismo, hanno riscoperto con Barack Obama l’utilità della mano visibile dello Stato laddove latita quella invisibile del mercato? L’importante è fatturare. E se hai la fortuna e il coraggio di prendere una Chrysler al minimo storico, poi avrai tutta la ripresa da sfruttare. Il resto è un’ubbìa da economisti.

Il Vecchio Continente, invece, rappresenta una palla al piede. E l’Italia peggio. Nell’intervista al Corriere della Sera, il top manager in pullover blu avverte che, qualora non riuscisse ad esportare abbastanza in America, la Fiat Auto dovrebbe chiudere due dei suoi cinque stabilimenti domestici. E cioè, chiariamo noi, alleggerire gli organici di 8-10 mila persone, quasi tutte non più giovani, con una ricaduta negativa quattro volte superiore nell’indotto. Una mazzata nella patria degli esodati.

La risposta alla seconda domanda non è mai stata data. Chiedere che cosa accadrà se venisse smontato l’euro suona politicamente scorretto. Troppo imbarazzante. Eppure, la domanda gira. Capita di ascoltarla in una fresca sera di maggio, tra centinaia di concessionari di automobili che si ritrovano a Verona, nel bel giardino settecentesco di villa Giusti, per l’Anticrisi Day. Qualcuno della corte Fiat ci spera, qualcuno della corte tedesca lo teme. Ma sullo sfondo di quella sorta di rito esorcistico contro la fuga dei clienti, le proiezioni dell’Anfia, l’associazione della filiera automobilistica nazionale, profilano il disastro. Nel 2007, alla vigilia della recessione, le concessionarie avevano venduto 2,5 milioni di vetture nuove.

Nel 2012 scenderanno sotto il milione mezzo. Ai livelli di vent’anni fa. Ma il paragone con i primi anni Novanta preoccupa l’intero settore automotive assai più di quanto non dicano le immatricolazioni.

Ai tempi in cui si scriveva il Trattato di Maastricht, la Fiat aveva più o meno la metà del mercato interno e l’11% di quello europeo. Oggi è sotto il 30% in casa e sotto il 7% su scala continentale. Nel 1993, con il Brasile già sperimentato e la fabbrica polacca avviata, Fiat, Alfa Romeo e Lancia continuavano pur sempre a fabbricare in Italia il 65% del venduto globale. Adesso la parte made in Italy si aggira su un quarto. Vent’anni fa, l’Italia poteva svalutare la lira per favorire le esportazioni, mentre in Europa le importazioni di vetture dall’Estremo Oriente erano contingentate e tali sarebbero rimaste fino al 1999.

Nel 2012, le protezioni sono cadute da tempo, mentre l’euro rende impossibile il recupero per via monetaria in Europa. E anche fuori. Il dollaro, infatti, resta debole nel cambio con la moneta unica, nonostante le obbligazioni pubbliche dell’Eurozona siano così declassate dalle agenzie di rating. Più in generale, nei primi anni Novanta l’Italia e il suo maggior gruppo industriale, entrambi con l’acqua alla gola, avevano nel resto dell’Occidente una locomotiva alla quale agganciarsi, magari con la spinta artificiale e pericolosa delle rottamazioni. 

Negli anni Dieci del nuovo secolo, l’Occidente avanzato segna il passo. Sono i Paesi emergenti ad avanzare. E l’industria si adegua. Nel mondo non si sono mai vendute tante automobili come in questi ultimi anni, ma è ormai la Cina il primo mercato e il primo produttore. Si pensi che la General Motors sta seriamente pensando di trasferire il quartier generale da Detroit a Shangai. In Europa la domanda di automobili resterà ancora a lungo sotto i livelli antecedenti la Grande Crisi. Ma mentre al di là dell’Atlantico alla Grande Crisi si è risposto chiudendo decine di fabbriche e migliaia di concessionari per poter salvare il salvabile, al di qua non si è affondato il bisturi. E però l’Europa dell’auto non è uniforme. Le quattro case tedesche – Volkswagen, Mercedes, Bmw, Porsche – vanno tutte bene. Hanno problemi, sempre in Germania, la Ford Europe e l’Opel, che appartiene a General Motors. Vanno male le due francesi, la Renault e la Peugeot-Citroen, e l’italiana, ovvero la Fiat, con la dorata eccezione della Ferrari.

Questa insidiosa divaricazione dentro l’Europa e tra l’Europa e il mondo era visibile anche prima della Grande Crisi. Secondo Mediobanca Securities, già nel 2007 i margini industriali medi delle case europee correvano sul 4,5% dei ricavi; quelli delle case giapponesi sul 7,5-8%. Il dato europeo poi si divide tra Bmw e Mercedes all’8-9% (Porsche è un luxury brand e gioca in un altro campionato), Volkswagen al 6% e le francesi e le italiane tra il 2 e il 3,5%. La capacità di vendere ad alto prezzo spiega la forza delle alte di gamma tedesche. Ma poi?

A ben vedere il prezzo medio di ogni vettura è simile tra case generaliste europee e giapponesi. La diversità dei margini si spiega con altro. In particolare, con il maggior numero di auto prodotte per dipendente e per stabilimento. Toyota, Honda, Nissan hanno fabbriche non troppo grandi e relativamente nuove, impiegano organici non pletorici e producono modelli vendibili. Italiani e francesi hanno troppe fabbriche, troppo vecchie, troppo grandi e con troppi dipendenti. La Fiat in particolare fatica a vendere. E così, pur facendo meno ricerca e investendo meno degli altri, si ritrova già allora con un capitale investito per vettura superiore. E i francesi a ruota. Mentre Volkswagen si salva, grazie alla maggior condivisione delle piattaforme produttive. Se l’Europa dovrà rassegnarsi a imitare l’America, già si capisce che non saranno le tedesche a tagliare.

A onor del vero, questa situazione Marchionne l’ha in gran parte ereditata. L’industria dell’automobile esige anni e anni di investimenti cospicui e coerenti. Volkswagen ha deciso vent’anni fa di dare la scalata la mondo, non tre anni fa. Toyota aveva fatto lo stesso. La Fiat è arrivata alla prova della Grande Crisi molto fragile, provata da anni quasi fallimentari. Nel 2008, l’anno del crac Lehman e dell’avvio della recessione, la Fiat era ancora una conglomerata che produceva automobili, veicoli industriali di diversa taglia, autobus, macchine agricole e movimento terra, ricambi. Nel tempo, i risultati positivi degli altri settori e alcuni aiuti pubblici come le rottamazioni avevano un po’ mascherato le perdite dell’auto. E proprio Marchionne ha riconosciuto di fronte agli analisti come da oltre 10 anni la Fiat Auto non ripagasse nemmeno il costo del capitale. La passeggera ripresa del biennio 2006-2007 non poteva certo bastare al recupero. Di qui la promessa di lavorare sulla Fiat Auto senza che la Fiat come tale ci rischiasse più un euro dei suoi azionisti. Un proposito consacrato alla fine del 2010 con la scissione tra Fiat Spa, che controlla Fiat Auto, Ferrari, Maserati e Marelli, e Fiat Industrial, che controlla Iveco e Cnh.

Con quella storia e quei vincoli di capitale, che le negano oggi un passo alla Volkswagen, la Fiat di Marchionne naviga a vista. Cerca di cogliere le opportunità. Con l’affare Chrysler pesca la briscola. Il futuro dirà se sia un asso o un fante. Certo è che Marchionne entra sul mercato americano partendo dal momento più basso, il migliore per un nuovo venuto; paga un biglietto d’ingresso assai contenuto, valorizzando tecnologie Fiat che non hanno un mercato di per sé, se è vero che il governo Usa le valuta miliardi e la Fiat 300 milioni.

L’America in ripresa compensa l’Italia e l’Europa. Ma non al punto da cancellare i problemi finanziari e industriali del nuovo gruppo che potrà davvero dirsi tale quando Fiat e Chrysler vareranno la fusione, il passaggio cruciale per decidere dove staranno il cuore e il cervello, se a Torino o a Detroit.
La decisione fatale non è ancora presa, perché Wall Street non è più generosa nella valutazione dei titoli automobilistici come lo era un anno fa, appena scampato il pericolo del default di General Motors e Chrysler. Ma anche perché la struttura finanziaria va sistemata in base al destino dell’euro e al connesso rischio di liquidità, mentre l’insediamento storico nazionale va allineato agli standard americani e alle novità che possono venire dalla Francia, dove Peugeot-Citroen ha stretto un accordo con la General Motors (che ricorda quello che fece la Fiat) e la Renault può contare (ma solo fino a un certo punto) sulla Nissan. Accelerando i tempi dello sbarco a Wall Street, la Fiat pagherebbe dazio. Temporeggiando, cresce l’incertezza.

Secondo il Credit Suisse, la Fiat e le case francesi potrebbero avere bisogno di un aumento di capitale nel 2012. E questo è esattamente quanto Marchionne vuole evitare, memore della parola data ai soci e agli analisti. Perciò seguita a conservare una riserva di liquidità, ingente e costosa perché fatta a debito, ma utile a conservare un rating e a far fronte a un possibile credit crunch.

Con l’intervista al Corriere, Marchionne ha archiviato il progetto Fabbrica Italia come messaggio al Paese. Si proponeva di aumentare la produzione nazionale da 650 mila a 1,4 milioni di vetture entro il 2014 facendo leva su una ripresa prevista per il 2012. Troppa grazia. Il 2012 è l’annus horribilis che sappiamo. Cisl, Uil, Fismic e il governo Berlusconi avevano creduto a Fabbrica Italia a scatola chiusa, accecati dalla buona occasione per isolare la Cgil e la Fiom e incapaci di leggere i bilanci. Cgil e Fiom hanno fatto un’opposizione tutta politica, anziché sfidare la Fiat a dare corso alle promesse. Marchionne ha navigato.

L’aumento della produttività dei siti italiani, se non potrà avvenire aumentando la produzione a parità di occupati, avverrà riducendo gli occupati.

Se questo passaggio indebolirà ancora l’industria automobilistica italiana, non sarà un problema della Fiat e dei suoi azionisti, ma del Paese e – se lo riterrà tale – del governo Monti.

 

di Massimo Mucchetti, editorialista e vice direttore del Corriere della Sera

 

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