Il governo Monti alla prova con le politiche sanitarie di rientro e la loro approssimazione

Il piano di rientro, così come disegnato in quasi tutte le regioni, produrrà – quando andrà bene – un accettabile effetto di tipo ragioneristico, per il resto avrà un impatto disgregativo dell’assistenza. Invero, i più aggrediscono in modo discriminato il livello di assistenza ospedaliera con tagli lineari dei posti letto e con riconversioni decise solo per non scontentare i tradizionali bacini elettorali. Agiscono, quindi, senza un progetto sistematico. Nella maggior parte dei casi tolgono senza dare nulla in cambio, omettendo di programmare l’assistenza territoriale. Con questo disertificano i riferimenti assistenziali abbandonando a se stessi le periferie montane e i comuni più penalizzati sotto il profilo della viabilità ordinaria.

In buona sostanza, scrivono le pagine del futuro della salute dei cittadini coinvolti senza il necessario coinvolgimento degli operatori e del no profit, oramai, ovunque, attore necessario del Servizio sanitario nazionale.

Un modo, questo, per ampliare la forbice delle differenze prestazionali tra un nord che – forte anche delle economie derivanti dalla mobilità attiva (la Lombardia gode di un saldo attivo di oltre 400 milioni di euro) – ha imparato a produrre buona sanità e un sud che – debole del debito accumulato, del ricorso all’emigrazione della salute e di un management, lato sensu, inadeguato – arranca e fa del cambiamento lo strumento dell’immaginario collettivo.

Il deficit di comunicazione è tipico delle regioni afflitte dai commissariamenti ad acta, impegnati così come sono a veicolare, “il pensiero unico”, senza confronto alcuno.

Il deficit della legalità. Quanto al principio della legalità è un po’ saltato ovunque sia presente un commissariamento ad acta, ma non solo. Gli esempi sono tanti, maggiori in alcune regioni, come la Calabria, minori nelle altre. Per fortuna, la Consulta, con alcune recenti sentenze, ha dato finalmente ordine in tema di esercizio dei poteri del Governatore/Commissario, altrimenti sarebbe stato un disastro.

Nella mia regione – la Calabria per l’appunto – un siffatto ordine tarda ad essere compreso. Molti dei provvedimenti assunti, primi fra tutti quelli che sanciscono il riordino dell’offerta ospedaliera (decreti 18/10 e 106/11), sono palesemente illegittimi, in quanto tali inidonei a raggiungere lo scopo cui sarebbero destinati. Ciò in quanto modificano profondamente la rete ospedaliera regionale in essere, divenuta tale a seguito di un’apposita legge regionale (la n. 11/04) che ha approvato il PSN 2004/06. Ne consegue che solo ad un analogo provvedimento, per l’appunto ad una legge regionale, può essere rimesso il compito di modificare l’esistente, normativamente protetto (Consulta n. 2/10 e 361/10, docet). Al riguardo, non serve ad eludere un siffatto insindacabile principio la delibera del Consiglio dei Ministri del 30 luglio 2010, di nomina e attribuzione dei poteri commissariali al Presidente della Regione – che, come noto ai giuristi, non può assumere efficacia legislativa – tant’è che la stessa non facoltizza il nominato Commissario ad acta a decidere senza il ricorso alle leggi regionali, qualora dovessero occorrere per ordinaria prescrizione costituzionale.

Del resto, questo è un vizio costante del commissariamento regionale che si è addirittura spinto, con il decreto 70/11, a disapplicare un provvedimento legislativo dello Stato. Quel d.lgs. 231/02 che stabilisce gli interessi moratori per i creditori “impagati fuori tempo massimo” del Servizio sanitario regionale, adottato allora dal Governo quale atto di recepimento di una apposita direttiva comunitaria (2000/35/CE) emanata dall’UE in tal senso. A proposito di crediti, un altro chiaro esempio di mancato rispetto delle leggi emerge dalla lettura dei decreti 36/10 e n. 91/11 che, rispettivamente, istituiscono e costituiscono una “interessante” struttura regionale (BDE) alla quale vengono riconosciute, invero molto fantasiosamente, competenze non attribuibili se non con provvedimenti legislativi ad hoc. Le funzioni “delegate” riguarderebbero, infatti, il perfezionamento delle transazioni e degli accordi con i creditori delle Asl e delle Ao, atti tipici, questi, strettamente afferenti le competenze delle aziende della salute, attesa l’autonomia imprenditoriale alle medesime riconosciuta dalle leggi dello Stato, quanto a principi fondamentali, e dalla regione, con apposita legge di dettaglio. Un errore di ipotesi che andrà verosimilmente a determinare responsabilità degli “incaricati” e artificialità dei bilanci aziendali, non “scaricati” legittimamente delle poste debitorie per difetto di un apposito contratto abilitativo, per esempio di accollo.

Concludendo, i piani di rientro presentano il più grave dei difetti: ridisegnano il sistema senza conoscere le realtà regionali in cui esplicitano i loro effetti. Dimostrano di non conoscere le regioni, quanto a specificità orografica e condizioni di vita, e di non conoscere le popolazioni che le abitano, quanto a fabbisogno epidemiologico. Trascurano palesemente i bisogni emergenti, supposti come sempre perché mai rilevati, e attestano una precisa volontà di non fare del sociale e del sanitario un unicum inscindibile.

Un auspicio. Si faccia in modo di allargare la platea che decide. Sindaci, professionisti, strutture e utenti organizzati non negheranno, di certo, il loro utile contributo, nell’interesse esclusivo dell’utenza. Ne godremmo tutti, in termini di risultato. A cominciare da chi istituzionalmente favorirà l’attivazione del nuovo processo partecipativo.

Il nuovo ministro, prof. Renato Balduzzi, al quale è doveroso dedicare il migliore augurio di buon lavoro, saprà certamente stimolare un positivo cambio di rotta in tal senso, forte del suo radicato convincimento di erigersi a tutela dei Lea ovunque, dell’unità giuridica ed economica della Repubblica.

Una proposta. La constatazione dell’attuale disorganicità e mediocrità del sistema in una area del Paese che conta oltre 20 milioni di abitanti – così com’è afflitta dai piani di rientro, alimentata dal sospetto di un suo indiscriminato allargamento geo-demografico, per effetto dell’estensione del fenomeno anche ad alcune regioni del nord, già in deficit corrente – induce a sancire il fallimento dell’aziendalizzazione della salute. Un sistema, questo, inquinato dall’occupazione della politica che non ha saputo rinunciare ai privilegi goduti attraverso la sua gestione diretta (esempio, le nomine dei direttori generali e “affini”) e indiretta (esempio, le nomine “primariali” e, più in generale, la gestione del circuito occupazionale).

Il ricorso alla militarizzazione, da parte dei commissari in carica, della gestione delle Asl/Ao e le nomine di sub-commissari regionali, provenienti dalle diverse armi istituite a difesa dello Stato, ne sono una prova. Così facendo si è ammesso e si continua ad ammettere la necessità del cambiamento radicale del sistema, non più affidabile agli imprenditori pubblici di ieri, peraltro in molte realtà neppure garanti della impermeabilità che necessita opporre ai tanti tentativi di infiltrazione delle organizzazioni delinquenziali, sempre più attratte dagli affari connessi alla salute.

Il rimedio a tutto questo potrebbe essere rintracciato nel processo di agenzificazione del sistema, magari distinto per gestione dello stock del debito pregresso e per gestione corrente. Sarebbe un modo per garantire la certezza del diritto, la trasparenza, la tutela economica e la libertà dalla politica nella gestione della salute dei cittadini.

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