La Libia dopo il voto

libya election Prime elezioni democratiche

Il Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) di Mustafa Abdel Jalil è stato di parola. Nonostante la popolazione della Libia, quarto paese dell’Africa in termini di estensione, e le poche istituzioni esistenti non siano affatto avvezze alle procedure ed ai rituali del voto democratico, le elezioni sono state organizzate in modo efficiente, e si sono svolte – anche a detta degli osservatori europei, dell’Onu e delle Organizzazioni non governative (Ong) – in modo sufficientemente ordinato e credibile in tutti i 13 maxi-collegi.

Certo, gli episodi di violenza, di sabotaggio, di astensione e di mismanagement ci sono stati, ma in misura sorprendentemente inferiore alle previsioni più rosee.

Fissate inizialmente per il 19 giugno, le operazioni di voto sono state posticipate al 7 luglio – e non a settembre, dopo il Ramadan, come si temeva – per consentire al maggior numero possibile di persone di registrarsi. Provvedimento che è andato ad effetto, lo ha dichiarato il presidente della commissione elettorale, visto che il numero di iscritti ha superato i 2,8 milioni di persone, ossia il 75 per cento dei cittadini con diritto di voto. Quindi, la voglia di votare nel complesso c’è, incuriosisce ed attrae, se, come ci dicono le cronache, nei grandi centri il tutto si è svolto addirittura in un’atmosfera di festa. Ma sui manifesti elettorali i soliti ignoti avevano già coperto con vernice nera il volto delle candidate.

Processo complesso
D’altra parte, dopo una guerra nata dalla volontà di pochi – ma costata comunque distruzioni, migliaia di morti, sfollati senza possibilità di ritorno, sequestri e sparizioni – la posta era grande e l’occasione non ripetibile, pena una balcanizzazione, per non dire “somatizzazione”, che non sembra ancora scongiurata del tutto. Per molti, arrivare a concludere rapidamente queste elezioni è stato ancora più importante del risultato: il percorso della road map verso un processo di stabilizzazione, che va comunque guardato nei tempi lunghi, doveva necessariamente cominciare, e senza indugi.

Evidentemente, nelle classi più consapevoli c’è stata la percezione che, in caso di fallimento, la frammentazione sarebbe stata inevitabile. Sarà forse per motivi di convenienza elettorale, ma nel corso della campagna tutti i candidati si erano espressi per l’unità dello Stato e la laicità delle istituzioni repubblicane, pur con la sharia come fonte principale del diritto. In questa fase iniziale c’è stato persino un certo fair play, dove i laicisti hanno ricordato di essere comunque musulmani e tutti i confessionali hanno assicurato di essere dei moderati. Nella pratica, staremo a vedere, perché la Costituzione è ancora da scrivere, e dovrà certamente essere scritta a più mani.

In questa prima tornata elettorale politica – la precedente, amministrativa, si era tenuta per eleggere i sindaci – lo scopo è stato quello di eleggere un Parlamento di transizione formato da 200 deputati. Di questi, 102 dovranno essere tripolitani, 60 cirenaici e 38 del Fezzan. Ancora, dei 200 seggi 120 sono riservati alle candidature individuali, mentre il resto verrà assegnato attraverso il voto di lista. Il tutto è un po’ complicato e si presta a contestazioni, se si pensa che i partiti da cui trarre i rimanenti 80 deputati sono ben 142.

Questo Parlamento di transizione dovrà esprimere un nuovo primo ministro, il nuovo governo provvisorio fino alle elezioni del 2013 e un’assemblea ristretta a 60 membri incaricata di scrivere la bozza della Costituzione, indicando quindi quale assetto dare allo Stato (centralista o federalista) e quanti e quali poteri assegnare agli organi locali. Punti fondamentali, sui quali i pareri concordi sinora sono stati solo di maniera.

Completato il lavoro, la bozza dovrà essere sottoposta a referendum popolare, in attesa delle nuove elezioni. Questa moltitudine di forze e di candidati è convenzionalmente raggruppabile in tre filoni principali: quello laico-islamico moderato delle Forze di Alleanza Nazionale (che potremmo definire liberale) dell’ex premier Mahamoud Jibril, quello islamico sedicente moderato di Giustizia e Ricostruzione, emanazione dei Fratelli Musulmani, e al-Watan del barbuto ex comandante militare dei ribelli Abdelkhadim Belhaj – detto “l’Afghano” – considerato concettualmente abbastanza vicino ad al-Qaeda.

Post-voto
A meno di improbabili stravolgimenti nei prossimi giorni, con scorno di molti scommettitori ed un sospiro di sollievo da parte dell’Occidente, questa prima battaglia è stata vinta dalla formazione liberal-democratica di Jibril. Cosa avverrà della Libia in questo primo periodo post-elettorale? Nulla di definitivo, perché una stabilizzazione, se pur ci sarà, non potrà che svilupparsi progressivamente, e solo nel lungo termine. I problemi del nuovo governo sono molteplici, tutti gravi e di variegata natura. Forse quelli di carattere economico sono i meno pressanti, perché in Libia vale un trasversale “business is business” e, come avevamo già visto sotto Gheddafi, tenderanno a seguire un corso autonomo dalla politica.

La prima chiave della stabilità già di per sé si qualifica come “operazione impossibile”: si tratta dello scioglimento delle bande armate, pomposamente chiamate “brigate”, e la riconsegna delle armi. A chi? All’esercito regolare, vale a dire ad elementi di altre tribù, magari rivali. È inimmaginabile. Queste unità, sparse in tutto il paese, sembra siano un paio di centinaia. Alcune, come si è visto nell’attacco alle forze che presidiano l’aeroporto di Tripoli, sono dotate di mezzi pesanti. Nei giorni scorsi, centinaia di miliziani armati (thuwar, ex-rivoluzionari), hanno assaltato il palazzo del governo chiedendo cose impossibili, come seggi riservati e amnistia per i crimini commessi negli otto mesi di guerriglia.

Altri, nuova fonte di disordine, chiedono a gran voce il sussidio promesso agli ex partigiani (è un fenomeno che anche noi conosciamo bene da sessant’anni), ma, contro circa 200 mila thuwar accertati sono state presentate più di 450 mila domande. Poi c’è il grave problema della popolazione di colore, cacciata dalle abitazioni requisite dai ribelli in quanto accusata di essere complice del vecchio regime. L’integrazione dei gruppi armati nell’esercito e nella polizia fa parte delle promesse elettorali, ma creerà più problemi di quelli che potrà risolvere.

Cauto ottimismo
Sempre sul piano interno, c’è il problema dei tentativi di secessione in Cirenaica, del comportamento delle sette che hanno ostacolato le elezioni e boicottato i seggi, dell’influenza negativa che, magari con aiuti esterni, riusciranno ad avere i gruppi confessionali estremisti su quelli moderati. Al sud c’è il problema dei Tebu, che tentano di separarsi chiedendo all’Onu lo stesso trattamento del Sudan del sud, ed altro ancora. I veri problemi strategici, quelli del ruolo del paese nel nord-Africa e nel Mediterraneo, all’interno del mondo arabo e dell’Islam, nel rapporto con l’Occidente e con i Brics, non possono che essere subordinati ad un minimo di stabilità interna, che davvero non sembra a portata di mano.

Ciò nonostante, da qualche parte si doveva pur cominciare e, sempre come inizio, l’andamento e l’esito di queste prime elezioni suggeriscono un cauto ottimismo. Giustamente i leader mondiali e l’Onu hanno già formulano congratulazioni ed espressioni di soddisfazione. Per il futuro della Libia, o per il risultato del guaio che hanno combinato all’insegna della responsibility to protect?

 

Maro Arpino, giornalista pubblicista, collabora con diversi quotidiani e riviste su temi di politica militare e relazioni con il medio-oriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.

 

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