La vera sfida è inventarsi un impiego

apprendistato «Non possiamo illudere i nostri giovani che potranno avere un futuro da dipendenti», Walter Passerini su La Stampa

 

L’ecatombe di posti di lavoro continua. Se non fosse un gioco cinico, non ci resta che scommettere quando la disoccupazione tra i 15 e i 24 anni supererà il 33% (è al 32,6% nel quarto trimestre 2011) e quando quella generale supererà il 10% (è al 9,6% alla fine del 2011).

Accadrà molto presto, perché il 2012 sarà l’anno peggiore dell’occupazione, dove verranno a convergere i posti perduti dai precari con quelli dell’esaurimento delle casse integrazione. Che fare, se non ci si vuole rassegnare alla sconfitta? Anziché litigare sui numeri (sono pochi, sono troppi), varrebbe la pena tentare un’agenda per un patto a favore dei giovani, un manifesto per l’intraprendenza.

Cinque le aree per un intervento efficace. La prima è quella della formazione e dell’orientamento. I ragazzi che dopo la maturità si iscrivono all’università rischiano di diventare vuoti a perdere. La casualità delle scelte non può essere addossata né ai giovani né ai loro genitori.

I «drop out» e i «neet» sono diventati un fenomeno sociologico, ma le colpe sono quelle della mancanza di un orientamento sia scolastico che di transizione, dalla scuola al lavoro.
La seconda area è l’inadeguatezza dei servizi all’impiego, pubblici e privati. Solo il 6% viene intercettato dagli intermediari professionali e il prevalere del tam-tam e del passaparola, impregnato di familismo e localismo, non riesce a intercettare i posti vacanti, che alcuni stimano in 500 mila. La terza area è quella delle retribuzioni e del sostegno al reddito. I giovani sono precari e sottopagati. Tutte le indagini lo confermano. Oltre al mancato incontro tra domanda e offerta, c’è anche lo spreco di risorse ad alto potenziale, passato dal «brain drain» al «brain waste», dalla fuga dei cervelli al disprezzo di quelli che restano. Il livello degli stipendi dei giovani talenti italiani è troppo basso. Far parte della Generazione mille euro è offensivo e penalizzante per lo stesso studio, per la formazione, che è sempre meno ascensore sociale e sempre più uno stigma da sfigati.

Il basso livello delle retribuzioni dei giovani si ripercuote, ed è la quarta area, sul futuro delle pensioni, su quella che viene chiamata la bomba previdenziale. Se oggi gli stipendi sono bassi, domani le pensioni dei giovani rischiano di essere un assegno di povertà e non ci sarà posto per il reddito minimo di cittadinanza.

Infine, ed è un asse imprescindibile, è necessario lanciare un piano per il lavoro autonomo e imprenditoriale dei giovani. È questa l’inversione di tendenza che dobbiamo compiere, la rivoluzione culturale che dobbiamo attuare. Il 97% del sistema delle imprese è di piccole e piccolissime dimensioni. Non possiamo illudere i nostri giovani che potranno avere un futuro da dipendenti, finché i posti saranno sempre più a lungo occupati dai loro padri.
Dobbiamo, possiamo invece lavorare, creando un tessuto culturale, di servizi, di finanziamenti, di sostegni che trasformino le nuove generazioni nei nuovi artigiani del futuro. Su questo vanno chiamati a raccolta i principali media, che concorrano alla formazione di una diversa cultura del lavoro, da dipendente a intraprendente. È necessario creare una nuova generazione di imprenditori, di lavoratori autonomi, di consulenti e di professionisti. Il lavoro sarà sempre più fare impresa. E lo slogan è quello del rettore di Harvard, nei panni di Larry Summers, che nel film «The social network» così strapazza gli atletici gemelli Winklevoss: «I migliori allievi di questa università non sono quelli che escono e trovano un lavoro, ma quelli che escono e un lavoro se lo inventano».

 

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