Rio+20, il nuovo patto sull’ambiente Veti incrociati tra Stati poveri e ricchi

rio20 Delusione per i pochi impegni precisi. L’Onu: consenso importante. Tolti dal documento finale i punti di frizione

«Anch’io avrei voluto un documento più ambizioso, ma così sono andati i negoziati. E il consenso raggiunto è importante». Persino Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, ammette che la conferenza sull’ambiente in Brasile (Rio+20) potrebbe offrire di più. Scarso coraggio, solo dichiarazioni di principio e non molto di più di quanto si è deciso vent’anni fa, sempre a Rio, attaccano i gruppi ambientalisti.

Tra i corridoi della diplomazia, dietro la soddisfazione ufficiale, non si nasconde la delusione. Il summit è appena iniziato, e il voto finale sul documento sarà venerdì sera. Ma è improbabile che i capi di Stato appongano modifiche al trattato.

In sintesi: la Rio+20 avrebbe potuto definire con precisione il concetto di economia verde, fissare mete concrete di sviluppo sostenibile e creare un organismo Onu per l’ambiente. Non fa nulla di tutto questo, soprattutto a causa dei veti incrociati tra Paesi ricchi e in via di sviluppo. I primi, immersi nella crisi finanziaria, non hanno nuovi fondi da destinare a organismi internazionali, né possono raccontare ai propri cittadini che le speranze di recuperare il benessere debbano passare attraverso sacrifici dipinti di verde. Il cosiddetto Sud del mondo, da parte sua, non accetta di frenare la propria crescita, o di sottostare agli stessi criteri ambientali dei Paesi sviluppati: un esempio su tutti le emissioni nell’atmosfera: il documento si limita a «raccomandare». Tra i primi venti paragrafi, cinque iniziano con la parola «noi riconosciamo» e altri sei con «riaffermiamo».

VETRINA – Tra i diplomatici europei, che avrebbero voluto impegni più specifici, si fa notare che la Rio+20 è una conferenza troppo generica per offrire grandi notizie al mondo. «Anche nel 1992 si disse che non era stato deciso niente. Invece da quel documento nacque tutta la discussione sui cambiamenti climatici», sottolinea un negoziatore. Il summit, poi, soffre di un peccato originale: fortemente voluto dal Brasile, è diventato una sorta di vetrina dello sviluppo e della matrice energetica «pulita» di questo Paese. Tre giorni prima dell’inizio del summit sono stati diffusi i migliori dati sull’Amazzonia dell’ultimo decennio: la deforestazione avanza, ma non era mai stata così contenuta.
E al Brasile è toccato disinnescare la miccia di un possibile fallimento di questo summit.

DOCUMENTO FINALE – Poche ore dalla fine delle negoziazioni il documento finale era inchiodato ad appena il 30 per cento di consenso, il Brasile ha proposto di sfrondarlo il più possibile, togliendo tutti i punti di frizione. Un escamotage voluto dalla presidente Dilma Rousseff per evitare il bis di Copenhagen. Il documento finale, infatti, dev’essere approvato all’unanimità. Sono 49 pagine, titolate «L’avvenire che vogliamo». «A me sembra una conferenza brasiliana con alcuni ospiti stranieri…» ironizza Roberto Smeraldi, l’italiano che guida l’Ong locale Amigos da Terra.

RISULTATI – Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini invita comunque a non disprezzare il risultato raggiunto. «Nel documento non c’è tutto quello che avremmo voluto ma due elementi sono fondamentali: la green economy appare per la prima volta in un documento Onu come strumento per contrastare la povertà attraverso la crescita sostenibile; sempre per la prima volta poi si lavorerà su un indicatore che misuri i costi della crescita, oltre il Pil». Nelle prossime ore, secondo un accordo informale, nessuno dei capi di Stato o dei loro rappresentanti chiederà di cambiare il documento. Ma negli interventi alla sessione plenaria potranno emergere i desiderata che non si sono concretizzati. Attesi soprattutto gli interventi di François Hollande e Hillary Clinton. Mercoledì, quando ha parlato l’iraniano Ahmadinejad, la delegazione israeliana ha abbandonato la sala.

 

Rocco Cotroneo, Corriere della Sera

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