Dall’Europa un’occasione per modernizzare l’Italia

Bandiera-UE Aperti, propositivi, competitivi: la sfida europea

L’Italia ha sviluppato negli ultimi anni un rapporto complesso nei confronti del resto del mondo: da una parte siamo un Paese che si è sviluppato in gran misura grazie alla propria capacità di imporsi, con creatività ed efficienza, sui mercati internazionali, specie quelli europei.

Dall’altra, nel momento in cui l’emergenza di nuovi attori internazionali ha modificato equilibri che ci avevano permesso di prosperare, nella società italiana sono apparse molte voci dubbiose nei confronti della globalizzazione, che hanno spostato l’attenzione da cosa l’Italia avrebbe dovuto fare per prepararsi al meglio ai nuovi scenari a uno sterile dibattito sui mali della globalizzazione stessa.

Buona parte di queste obiezioni nei confronti della realtà globale hanno a che vedere con atteggiamenti conservatori che, nel nome di uno pseudo-nazionalismo di ritorno, vogliono invece proteggere rendite di posizione, a scapito in primo luogo dei cittadini italiani.

Pensiamo all’Europa: lo spazio europeo è stato quello nel quale le nostre imprese hanno esportato, creato crescita e occupazione, mentre si affievoliva la spinta dettata dai consumi interni che aveva alimentato gli anni sessanta e settanta.

Ma anche lo spazio geopolitico nel quale si sono mossi i governi italiani all’epoca della sfida Est–Ovest, e poi, in quella successiva alla caduta del muro di Berlino, dell’allargamento del modo di produzione occidentale.

E europeo è stato lo stimolo incessante al cambiamento e alla modernizzazione della nostra società. Che riforme avrebbe mai fatto un parlamento italiano più attento a preservare che non a rinnovare se non fosse stato per ottemperare alle esigenze dell’integrazione europea?

E quanto sarebbe durato il metodo di non decidere, allargando i cordoni della borsa in un processo d’indebitamento infinito, se non fosse venuto l’euro ad abbassare (sino all’agosto 2011) i nostri costi finanziari e ad obbligarci a un maggiore rigore, cui la nostra classe politica non è abituata?

Come detto, l’Europa è stata presa come un fattore acriticamente positivo, senza capirla a fondo: l’Europa non era solo uno spazio geopolitico, democratico e economico, ma anche un’occasione per modernizzare la nostra società, cogliendo a fondo le possibilità che la globalizzazione, prima europea e poi mondiale, ci offriva.

In gran parte quest’occasione è stata perduta: non solo l’Italia non ha mai saputo sfruttare appieno gli ingenti fondi strutturali venuti dall’Europa, spesso rispediti al mittente per l’incapacità di nostre regioni di eseguire progetti fattibili, ma lo stimolo riformista si è spesso limitato all’adozione di provvedimenti, senza che si avviasse un progetto di rinnovamento delle nostre strutture produttive e organizzative che ci permettessero di divenire più competititivi.

L’Europa non è stata presa per quello che era – una grande opportunità per prepararci alla globalizzazione – ma piuttosto come una fonte alternativa di risorse da mungere.

Nel frattempo, la dimensione reale della sfida europea sfuggiva ai più: molti hanno scoperto solo dall’agosto 2011 che il modello europeo era divenuto di sovranità condivisa a causa del nostro processo di integrazione. Ancora oggi si ascoltano voci scandalizzate che ci parlano di erosione della sovranità come se essa fosse un male da cui rifuggire o un treno da cui poter scendere a piacimento e non un’occasione da sfruttare per modernizzarci, divenire più competitivi, più forti nel mondo.

Come se rimanere isolati, in mano a una classe politica sempre più provinciale potesse fare al caso nostro. Molti nelle classi dirigenti ignoravano, o fingevano di farlo, che il diritto comunitario aveva già prevalenza su quello nazionale da molto tempo, ed è un’importante fonte del diritto nazionale, applicabile direttamente nei nostri tribunali: è a tutti gli effetti legge del Paese.

A forza di non capire l’Europa, di mandarvi rappresentanti inadeguati o “trombati” in casa, il peso dell’Italia in Europa si è indebolito sempre più e le voci italiane nella politica europea sono divenute sempre più flebili: in parallelo al processo d’allargamento, l’Italia ha perso peso politico in Europa, lasciando la leadership mediterranea, che avevamo avuto fino agli anni ottanta, a una Spagna molto più attenta alla dimensione europea, e venendo diluita la nostra forza, un tempo considerevole, a causa dell’emergenza dei paesi d’Europa centrale e orientale in seno all’UE.

Poi, quando i grandi temi discussi al Parlamento Europeo arrivano a quello nazionale per la ratifica, li scopriamo, senza però poter più incidere: il dibattito in Europa è avvenuto qualche anno prima, mentre noi ci occupavamo del nostro particolare, come l’ennesima (non)riforma della giustizia, delle (dis)avventure dei nostri leader o dei privilegi dei nostri parlamentari.

L’immagine dell’Italia nel mondo è stata penalizzata per anni da una classe politica clientelare, arraffona, impreparata. Ma l’Italia non è solo quello: è molto di più, e può ancora recuperare il terreno perduto.

L’esperienza dell’ultimo anno, anche se faticosa, ha cominciato a trasmettere un’altra idea di Italia, in linea con il mondo e le sue esigenze.

È questa la linea da perseguire, senza cadere nella tentazione di tuffarsi di nuovo nel populismo, nell’autoreferenzialismo, nei cammini apparentemente facili che in realtà peggiorano la vita degli italiani: perchè i problemi non si possono ignorare, perchè nel mondo globale non si può sopravvivere con rendite di posizione, ma solo se si è aperti, propositivi, competitivi.

 

Stefano Gatto, italiafutura.it, diplomatico, attualmente capo delegazione dell’Unione Europea in El Salvador, dopo aver ricoperto incarichi in Brasile, in India e nelle sedi comunitarie.

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