La prof di storia, la Shoah e l’odissea dei Kaufmann

Fania cavaliere Riceviamo e pubblichiamo un’interessante recensione di Chiara Beria d’Argentine dell’ultimo libro di Fania Cavaliere ” Il novecento di Fanny Kaufmann”, pubblicato dall’editore Passigli, ove si narra attraverso le vicende drammatiche vissute dei membri della famiglia Kaufmann la tragedia del Novecento.  

Per il Giorno della Memoria, Fania Cavaliere, prof di storia e filosofia al liceo linguistico Manzoni di Milano, porterà come ogni anno i suoi amati studenti («Ho classi una più bella delle altre!») ad ascoltare le testimonianze di Liliana Segre e Goti Bauer.

«Sono donne meravigliose. Giovanissime – Segre aveva solo 13 anni – furono deportate nei campi di concentramento». Da Auschwitz la bisnonna materna di Fania non tornò. Si chiamava Etta Blinder; a Jalta, la mite località sul Mar Nero frequentata dai Romanov e dalla loro corte, aveva sposato Abramo Davidovich Kaufmann, gioielliere di ricca e colta famiglia ebraica. La coppia aveva 6 tra figli e figlie. Tramonto dell’impero, speranze, persecuzioni.

A Fania di quel mondo tragicamente scomparso sono rimasti i ricordi scritti su 2 quaderni in un italiano incerto («Quasi temesse che se fossero stati in russo sarebbero andati persi») da sua nonna Fanny, una delle figlie Kaufmann che, in fuga dagli orrori dello stalinismo, si ritrovò nell’Italia fascista. Per quasi vent’anni Fania Cavaliere, signora di sangue calabrorusso dai profondi occhi neri, laureata in Filosofia, ha dedicato ogni ora libera dai suoi impegni di madre (ha due figlie, Giada e Giulia) e d’insegnante a inseguire tenacemente il suo progetto: narrare l’incredibile odissea della sua famiglia, vittima dei peggiori totalitarismi del Novecento europeo, dai pogrom ai gulag alla Shoah.

Quei diari erano stati affidati a Fania da suo padre, Alik Cavaliere, celebre scultore a lungo direttore dell’Accademia di Brera. «Sono stati fondamentali», spiega la scrittrice, «per ricostruire i giorni lieti a fine Ottocento di Jalta, quando Abramo, uomo religiosissimo, aveva clienti come l’emiro di Buchara con un harem di 300 mogli. Per il resto ho dovuto fare molte ricerche. Grazie alla onlus Gariwo ho, per esempio, ritrovato i documenti sui miei zii finiti nei gulag». Ai suoi studenti, per discrezione, la prof Cavaliere, che si autodefinisce «profondamente atea; detesto qualsiasi forma di fanatismo religioso», non ha chiesto di leggere il suo libro. Titolo: «Il Novecento di Fanny Kaufmann», pubblicato in maggio – dopo vari rifiuti – dalla casa editrice di Stefano Passigli.

«In tempi di boom di libri di cucina, Passigli ha avuto coraggio», sorride. «Un romanzo storico scritto in terza persona è considerato fuori mercato!». Ma l’avvincente saga familiare dei Kaufmann, il loro peregrinare da Jalta alla Mosca rivoluzionaria, da Parigi fino a Cittanova, il paese in Calabria del marito di Fanny, il poeta antifascista Alberto Cavaliere (ruppe con la sua cattolicissima famiglia quando scoprì che i suoi figli Alix e Renata erano stati battezzati di nascosto), aiuta a non dimenticare che gli ebrei sono stati i capri espiatori di ogni totalitarismo e quali tragedie si sono consumate in quell’Europa divisa.

Nel romanzo, tra i ritratti degli uomini di famiglia – da Sasha, il figlio primogenito, pezzo grosso del partito comunista esiliato perché trotzkista in una cittadina di confine e ucciso dall’esercito nazista, al fratello Djodia, stroncato dai lavori forzati, fino ad Alik, imprigionato a San Vittore e salvato dalle SS dalla mamma tedesca del pittore Gianni Dova -, colpiscono le figure delle combattive sorelle Kaufmann. Giovani donne che, investite dalla valanga della storia, hanno combattuto per ridare un senso alla loro vita. Raja, tornata in Urss nell’illusione di vedere riconosciuti i suoi studi di medicina, finì per 10 anni in un gulag; Fanny non diventò mai un’artista, ma trasmise al figlio Alik il suo sogno giovanile.

Medico specialista in tisiologia, la bellissima Sofia, dopo aver vissuto per anni a Mosca in 2 misere stanze, lavorava in un sanatorio a Sondalo. Per una soffiata fu deportata con la madre Etta ad Auschwitz; al suo ritorno, nell’agosto 1945, il cognato Alberto Cavaliere raccolse nel libro «I campi della morte in Germania» la prima voce di una superstite dell’Olocausto. Racconta Fania: «Sofia andò a vivere a Roma. Adorava giocare a poker. E’ morta a 103 anni circondata da amici. “Il passato? Merda”, diceva in russo. Da lei ho imparato che bisogna lottare contro i rimpianti e saper mordere la vita».

Chiara Beria d’Argentine, La Stampa, 12 gennaio 2013, pagina 29

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