Il documento dei “saggi” sia il testo della Convenzione per le riforme

Sono anni che propongo leggi di disciplina dei partiti politici con esiti assai deludenti. E non è un caso che il paragrafo si apra con una critica all’insufficienza dell’art. 5 della legge 96/2012 sul finanziamento dei partiti, che è il testo di un mio emendamento caparbiamente sostenuto e infine approvato, che impone ai partiti, allo scopo di ottenere la quota di finanziamento loro spettante, di trasmettere ai presidenti delle Camere tanto l’atto costitutivo quanto lo statuto “conformato ai principi democratici nella vita interna, con particolare riguardo alla scelta dei candidati, al rispetto delle minoranze e ai diritti degli iscritti”. E’ troppo poco, dicono i saggi, e hanno ragione, occorre una legge ad hoc più articolata. Ma personalmente ben conosco le difficoltà per riuscire ad affermare quel principio base, fondamentale, che introduce per la prima volta nella legislazione vigente la nozione di “democrazia interna” ai partiti, dopo decenni di resistenze su un’interpretazione dell’art. 49 Cost. arcaica e tale da limitare il “metodo democratico” al solo ordinamento esterno (mi permetto rinviare, amplius, a Mantini P. Buone regole per la “casta”, Roma Gangemi, 2008, con introduzione di Luciano Violante).
Condivisibili, e importanti, sono anche le misure di rivitalizzazione del referendum abrogativo tra cui, la più importante, è quella della definizione di un quorum di validità del risultato calcolato nella soglia del 50% più uno della percentuale dei votanti registrata nella più recente elezione della Camera dei Deputati.
In questo modo, si evita che la somma dell’astensionismo fisiologico, e di quello oppositivo al quesito, impedisca nella maggior parte dei casi il raggiungimento del quorum di validità, con l’effetto (antidemocratico) che la minoranza dei votanti prevale sulla maggioranza. In epoca di forte e giustificata attenzione per gli strumenti di partecipazione dei cittadini alla vita democratica il restyling del referendum abrogativo, che da tempo proponiamo nella generale indifferenza, è invece assai significativo, così come lo è l’obbligo più stringente di deliberazione delle Camere sulle proposte di legge di iniziativa parlamentare.
Nello stesso titolo della democrazia partecipativa o (rectius) amministrativa, va considerata la proposta sul “dibattito pubblico” per i grandi interventi infrastrutturali (tipo TAV, rigasificatori ecc.).
In realtà tale metodo dovrebbe essere anche più diffuso e ordinario, come risultato delle direttive europee in materia di VAS e di VIA, e di esperienze radicate negli ordinamenti europei (public inquiry ed examination in public nel mondo anglosassone, enquête pubblique in Francia, encuesta previa in Spagna, partecipazione al procedimento in Germania), nonché delle “udienze pubbliche” già previste in alcuni statuti comunali (mi permetto rinviare a Mantini P. Cenni sulla partecipazione al procedimento amministrativo nell’Europa comunitaria, in Atti del XXXVII Convegno di Studi di Scienza dell’Amministrazione, Giuffrè, 1994). Sono assolutamente favorevole ad una più cogente ed esplicita regolazione.
E veniamo ora al nucleo fondamentale della proposta del Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali che riguarda la ri-forma del governo, la ri-forma dello Stato e la legge elettorale.
A riguardo, come noto, il primo confronto è stato tra “forma di governo parlamentare razionalizzata” e modello semipresidenziale, confronto concluso con il risultato di 3 a 1 in favore della prima sul secondo. Il Gruppo di lavoro “ha ritenuto preferibile il regime parlamentare ritenendolo più coerente con il complessivo sistema costituzionale, capace di contrastare l’eccesso di personalizzazione della politica, più elastico rispetto alla forma di governo semipresidenziale.
Quest’ultimo, infatti, non prevede una istituzione responsabile della risoluzione della crisi perché il Presidente della Repubblica è anche Capo dell’Esecutivo.
Si legge nel Rapporto che “l’esperienza italiana, specie quella più recente, ha invece dimostrato l’utilità di un Presidente della Repubblica che, essendo fuori dal conflitto politico, possa esercitare a pieno titolo le preziose funzioni di garante dell’equilibrio costituzionale.
Il componente del Gruppo che ha sostenuto l’opzione semipresidenziale, ha invece sottolineato come l’attuale grave crisi del nostro sistema istituzionale richieda una riforma più profonda che, proprio grazie all’elezione diretta del Presidente, garantisca una forte legittimazione democratica e, al contempo, un’adeguata capacità di decisione. In questa prospettiva, va fatto rilevare che, in questa fase della vita politica, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica sia più efficace nel fronteggiare la crisi di legittimazione della politica, rafforzando la democrazia, coniugando rappresentatività ed efficienza istituzionale”. Insomma, dinanzi al “rischio Weimar”, c’è chi non crede alla resurrezione dei partiti e si affida direttamente alle istituzioni. E’ un modo ineludibile che qualunque tipo di Convenzione dovrà sciogliere anche per le dirette implicazioni sul tipo di legge elettorale.

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