La situazione dei diritti umani nella Repubblica Islamica dell’Iran

Il carattere fortemente religioso-integralista dell’organizzazione politica iraniana, unitamente all’esistere nel Paese di consistenti minoranze etniche e religiose, costituisce di per sé un terreno di coltura di potenziali abusi contro i diritti umani e civili, incluso il mancato rispetto delle garanzie democratiche – e ciò tanto sul piano della regolarità delle consultazioni elettorali, quanto sul piano della libertà di espressione del dissenso.

Negli anni successivi al consolidamento della Repubblica islamica tali potenzialità hanno avuto puntuali riscontri fattuali, con il largo ricorso finanche alla pena capitale, ma con l’utilizzazione ancora maggiore della tortura, dell’intimidazione e della detenzione extra-giudiziale, per tacere delle amputazioni e delle pubbliche fustigazioni.

Il rapporto annuale 2009 di Amnesty international registra un peggioramento della condizione dei protagonisti della società civile in Iran, ivi compresi quelli operanti a difesa dei diritti umani, nei confronti dei quali si è proceduto ad arresti e a processi non equi, impedendone altresì le riunioni e sottoponendoli a torture e ad altri maltrattamenti. Quanto alla pena di morte, nel 2009 risultano ufficialmente 346 esecuzioni capitali, ma si stima che siano molte di più, ed esse sono state irrogate anche nei confronti di minorenni. Per quanto concerne poi le minoranze etniche e religiose dell’Iran (azeri, baluci, curdi) vi sono stati nelle regioni di rispettivo insediamento continui disordini, come reazione alla compressione dei loro diritti economici e sociali, culturali, civili e politici. D’altra parte anche la legislazione programmata dalle autorità, se approvata, condurrebbe a un’ulteriore restrizione dello spazio per i diritti umani, soprattutto nei confronti delle donne. Al proposito, in ambito Nazioni Unite, un rapporto di ottobre del Segretario generale ha richiesto cambiamenti della legislazione iraniana conformi agli standard internazionali, per porre fine alle discriminazioni contro le donne e le minoranze etniche e religiose, mentre il mese dopo l’Assemblea generale ONU ha esortato il governo di Teheran a mettere fine alle intimidazioni e persecuzioni di oppositori politici, consentendo altresì visite ispettive da parte di organismi delle Nazioni Unite competenti per i diritti umani.

Tra gli attivisti per la difesa dei diritti umani la stessa Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, ha ricevuto sempre maggiori vessazioni e intimidazioni da parte di organi dello Stato, culminati in dicembre, quando è stato anche chiuso il Centro per i difensori dei diritti umani di Teheran, del quale la Ebadi è cofondatrice. D’altra parte le donne hanno visto proseguire le discriminazioni di legge e le repressioni nei loro riguardi, soprattutto se impegnate nella difesa dei loro diritti, e le autorità si sono servite a questo scopo anche della chiusura di giornali e siti Web, nonché del divieto di raduni pacifici.

Su questo sfondo, l’emergere clamoroso del movimento di protesta dopo le elezioni presidenziali del giugno 2009 non poteva non suscitare dure pratiche repressive, che il regime ha inesorabilmente messo in atto.

Le manifestazioni di protesta post-elettorali e la repressione del movimento.

Non appena resi noti i risultati delle elezioni presidenziali del 12 giugno 2009, con una schiacciante vittoria del presidente uscente Ahmadinejad sul principale sfidante Mousavi, distanziato di quasi 30 punti percentuali, già dalla mattinata del 13 giugno si assisteva nella capitale iraniana a scontri tra la polizia e gruppi di dimostranti che protestavano contro i risultati delle elezioni, a loro dire frutto di brogli. Le proteste, dapprima pacifiche, assumevano toni più minacciosi in parallelo con il crescere delle azioni repressive, mentre Mousavi invitava alla calma e ad astenersi da atti violenti. Iniziavano intanto proteste in altri paesi contro le rappresentanze diplomatiche iraniane, a cominciare da Londra e New York.

Il 14 giugno l’ondata di proteste si accresceva considerevolmente, facendo apparire quelli in corso come i tumulti più gravi dalla rivoluzione islamica del 1979. In breve tempo numerose strade di Teheran, comprese alcune di quelle di accesso alla città, si trovavano bloccate da autobus o cassonetti incendiati, mentre gli attacchi dei dimostranti si estendevano a negozi, uffici governativi, stazioni di polizia e relativi veicoli, e anche l’Università di Teheran veniva coinvolta da proteste su vasta scala sfociate poi in tumulti. L’ondata di contestazione si estendeva nel frattempo a numerose altre città iraniane, nelle quali venivano inviati reparti di Basij – la milizia scelta all’interno dei Guardiani della rivoluzione o Pasdaran -, visto che la polizia ordinaria antisommossa esiste praticamente solo nella capitale.

Mentre le manifestazioni di solidarietà con i dimostranti di Teheran si moltiplicavano considerevolmente in tutto il mondo, alcune troupe di giornalisti italiani e britannici denunciavano di essere stati malmenati dalla polizia, che procedeva anche al sequestro del materiale girato. Nella notte fra il 14 e il 15 giugno 15 studenti sono stati seriamente feriti – ma non si esclude la morte di alcuni di essi – in un attacco della polizia e delle milizie governative all’Università, verificatosi mentre gli studenti dormivano nei loro alloggiamenti.

Il 15 giugno più di centomila sostenitori di Mousavi potevano assistere al suo primo intervento dopo le elezioni, durante un raduno nella Piazza della Libertà di Teheran, tenutosi nonostante il divieto delle autorità. Nell’occasione sembra che una parte dei dimostranti abbia attaccato un edificio della milizia filogovernativa, dal quale per tutta risposta sono partiti colpi di arma da fuoco che avrebbero ucciso sette dimostranti. Nonostante la gravità di questo episodio va detto che il raduno di Piazza della Libertà era stato per il resto assolutamente tranquillo.

Il 16 giugno, seppure in misura minore dei giorni precedenti, migliaia di persone percorrevano le strade di Teheran in segno di protesta: al crescere dei tumulti il governo iraniano ha iniziato a prendere provvedimenti contro l’attività dei giornalisti stranieri nel paese, in particolare revocando le credenziali ai giornalisti presenti per le elezioni, e cercando di interdire agli altri ogni possibilità di riferire sulle proteste in corso.

Il 17 giugno un’ennesima dimostrazione sfilava per le strade di Teheran, incurante dei divieti e degli ammonimenti delle autorità. Lo stesso giorno, almeno quattro giocatori della nazionale iraniana di calcio, impegnati in una partita nella Corea del sud, si univano idealmente alla protesta indossando sul polso fasce verdi, e venivano sospesi (23 giugno) per questo dalla partecipazione alla nazionale.

Affollate manifestazioni avevano luogo anche il 18 giugno, in risposta alla chiamata di Mousavi per la commemorazione dei dimostranti uccisi nelle proteste del 15 giugno. Una contromanifestazione è stata tenuta da studenti di opposte idee politiche, con accuse all’ex presidente Rafsanjani di essere dietro le proteste a favore di Mousavi. Tutto ciò avveniva mentre il Consiglio dei guardiani invitava i tre principali sfidanti delle presidenziali a incontrarsi per una composizione delle controversie.

Il 19 giugno si aveva l’intervento in prima persona della Guida Suprema Ali Khamenei, in occasione di un appuntamento televisivo già programmato: Khamenei accusava mezzi di comunicazione di proprietà di sionisti di un tentativo di dividere lo Stato, unitamente a quello portato avanti dalle potenze occidentali nel gettare ombre sulle recenti elezioni presidenziali. Khamenei annunciava di voler resistere a tali pressioni illegali, e ammoniva i capi dell’opposizione, che sarebbero stati ritenuti responsabili degli spargimenti di sangue e del caos in corso nelle strade di molte città, qualora non avessero ordinato di porre fine alle dimostrazioni.

Nonostante la dura presa di posizione, alcune ore dopo il candidato alle presidenziali Kharrubi rinnovava la richiesta di cancellazione del risultato elettorale. Nel frattempo il portavoce di Mousavi riferiva che il quartiere generale di questi era stato messo a soqquadro da poliziotti in borghese, che avevano anche arrestato molti dei suoi collaboratori, mentre allo stesso Mousavi i Pasdaran avevano ordinato di rimanere in silenzio. Intanto sia la Camera dei rappresentanti che il Senato degli Stati Uniti formulavano un’esplicita condanna delle violenze contro i dimostranti perpetrate dalle autorità iraniane.

Secondo la stessa televisione di Stato iraniana, il 20 giugno vi sono state almeno dieci vittime e un centinaio di feriti negli scontri a Teheran tra i dimostranti, che sfidavano il divieto di manifestare formulato il giorno prima dalla Guida Suprema, e la polizia antisommossa, rafforzata da reparti della milizia filogovernativa dei Basij. Sempre secondo alcuni media filogovernativi, nell’occasione sarebbero state arrestate oltre 450 persone.

L’uccisione di una giovane donna ventiseienne, Neda Soltan, presumibilmente da parte della milizia Basij, con le sconvilgenti immagini della sua morte in mezzo alla strada, hanno fatto rapidamente il giro del mondo e della Rete, facendola divenire un simbolo assai efficace della rivolta. Anche lo speaker del Parlamento iraniano Larijani si schierava contro la repressione, dichiarando che il numero di persone convinte del carattere fraudolento delle elezioni presidenziali era molto elevato, e le loro opinioni andavano rispettate. Nel mondo intanto si moltiplicavano le manifestazioni di solidarietà con le proteste iraniane, mentre il presidente degli Stati Uniti Obama rilasciava una dichiarazione con la quale esortava il governo di Teheran a porre fine alle violenze contro i dimostranti.

Il 21 giugno, mentre per la prima volta si registrava una relativa calma nelle strade di Teheran, si verificava un pesante attacco del ministro degli esteri iraniano Mottaki contro la Francia e la Germania, per aver sollevato la questione delle irregolarità nelle operazioni di voto culminate con la rielezione di Ahmadinejad.

Assai più gravi le critiche di Mottaki al Regno unito, i cui servizi di intelligence sono stati accusati di aver infiltrato agenti in Iran prima delle elezioni per influenzarne l’esito: a queste accuse reagiva con forza il segretario britannico agli esteri Miliband. Lo stesso giorno si verificava l’espulsione del corrispondente a Teheran della BBC, accusato di diffusione di notizie prive di fondamento, di ignorare la neutralità nel proprio lavoro e di fornire supporto ai dimostranti. Un altro giornalista, un cittadino canadese di origine iraniana, risultava arrestato nello stesso giorno, mentre suoi colleghi di Reporters Sans Frontières asserivano essere ormai 23 i giornalisti iraniani arrestati nell’ultima settimana. Il 21 giugno si assisteva inoltre all’arresto della figlia di Rafsanjani e di quattro altri parenti, mentre le forze di sicurezza etichettavano i dimostranti come terroristi, nei confronti dei quali si era pronti ormai all’uso della forza.

Il 22 giugno – mentre la situazione nelle strade di Teheran si manteneva tranquilla, salvo che per scontri tra le forze di sicurezza e un migliaio di dimostranti, dispersi con l’uso di lacrimogeni – il Consiglio dei guardiani rompeva gli indugi, dichiarando la vittoria di Ahmadinejad, poiché le irregolarità già ammesse non sarebbero state tali da inficiare il risultato del voto.

Il 23 giugno il presidente degli Stati Uniti tornava a condannare l’uso della violenza contro i dimostranti in Iran, riferendosi esplicitamente anche alla vicenda di Neda Soltan.

Il 24 giugno, seppure proseguendo nella modalità dei piccoli raduni di dimostranti, gli scontri assumevano nuovamente una dimensione cruenta, con notizie di varia fonte che riferivano anche di uso di armi da fuoco contro i dimostranti.

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