Indagine conoscitiva sulla situazione e sulle prospettive del sistema industriale e manifatturiero italiano in relazione alla crisi dell’economia internazionale.

Con riferimento a questo settore, si evidenzia innanzitutto il ruolo che la ricerca può svolgere nei confronti della prospettiva di competitività industriale del Paese, individuato schematicamente su due fronti. Il primo è relativo al breve periodo, e quindi al tentativo di favorire lo sviluppo competitivo nei settori già attivi, attraverso il continuo miglioramento di prodotti e servizi. Si tratta di un ruolo rilevante di mantenimento di competitività, riguardante business planning aziendali di breve periodo, che è particolarmente rilevante per le PMI. Il secondo, relativo al medio-lungo periodo, deve favorire sviluppi industriali basati su nuovi prodotti, servizi, tecnologie, applicazioni, bisogni e mercati, che si basino su nuova conoscenza, non cioè incrementali, ma capaci di prospettare una vera competitività innovativa. Si tratta di azioni di sviluppo strategico che possono essere compiute solo in un medio-lungo periodo e che possono interessare alcune piccole e medie imprese, ma più classicamente le grandi.

Il Piano nazionale delle ricerche su questo tema ha individuato un quadro di riferimento riguardante tre filoni. Il primo è quello della ricerca pubblica (ricerca scientifica fondamentale) che gode di un altissimo livello di autonomia e non è indirizzata da interessi di parte, ma è interessata allo sviluppo di nuova conoscenza. Il secondo, chiamato ricerca tecnologica privata applicata, è quello di maggiore interesse nel rapporto pubblico/privato, che richiede necessariamente la contribuzione sia di chi sta sul fronte della ricerca pubblica fondamentale, sia di chi sta su quello dell’applicazione a valore dei risultati della ricerca. Il terzo è lo sviluppo industriale, tipicamente privato. Si ritiene che il primo filone, la ricerca scientifica fondamentale, debba essere necessariamente finanziato dal pubblico, mentre il terzo principalmente dai privati. Sul secondo è necessario trovare momenti di cofinanziamento rilevanti che consentano la portata a valore dei risultati condivisi.

Si evidenzia che i momenti di trasferimento tecnologico si basano sulla capacità del Governo di dare un indirizzo strategico sui temi che si ritiene possano incrementare la competitività industriale. Questo è quanto si richiede, non in via esclusiva, ma in via preferenziale.

Nell’analizzare tali processi di trasferimento della conoscenza dalla ricerca scientifica allo sviluppo industriale, si ritiene che la soluzione debba essere trovata nel riuscire a creare un sistema fra quattro attori: la ricerca pubblica, l’industria e il comparto industriale nel suo insieme, la finanza e il Governo. Si sottolinea, inoltre, che il compito che oggi il Governo deve svolgere all’interno del Programma nazionale della ricerca è diviso in tre ambiti: azione, responsabilità e risultati attesi. Si ritiene, inoltre, che il Governo debba svolgere un’attività di indirizzo strategico e quindi individuare e sostenere le azioni e i settori che possono essere rilevanti per il rilancio industriale del Paese, definire norme che rendano attuabili le azioni degli altri attori, e tutelare gli interessi del sistema nel suo insieme, coordinandone i diversi attori. Dovrebbe quindi svolgere un ruolo di regia.

Si evidenzia inoltre l’esigenza, avvertita dalle imprese, di dare seguito alle azioni intraprese con tempi e strumenti certi, garantire processi di selezione, valutazione e indirizzo trasparenti e rapidi, nonché tempi certi di istruttoria dei progetti finanziari. Tra i risultati attesi si indicano: la produzione di strumenti normativi e giuridici per la gestione dei processi di ricerca e di sviluppo, il potenziamento dei finanziamenti nelle diverse forme precedentemente individuate e delle regole per l’impiego degli addetti alla ricerca e la valorizzazione del personale di alta formazione.

In conclusione, si accenna ad alcune azioni prioritarie che sono state individuate e che fanno parte del citato Programma nazionale di ricerca. La prima riguarda l’autonomia universitaria, tema molto discusso da cui, a parere del professore, dipende la massimizzazione degli effetti positivi del trasferimento tecnologico e dei rapporti con le imprese. Le università sono sottoposte a vincoli normativi che inibiscono tali azioni, mentre l’assenza di una reale autonomia regolamentare e finanziaria conduce ad un generale appiattimento che riduce l’efficienza dei migliori e non favorisce la crescita degli altri.

La seconda azione concerne l’assunzione dei dottori di ricerca. Si evidenzia come il dottorato di ricerca sia uno strumento di trasferimento tecnologico importante e come in tutti i Paesi del mondo ad alto sviluppo industriale esso sia estremamente premiato come qualifica di formazione. Si auspicano pertanto forme di incentivazione all’assunzione di dottori di ricerca da parte delle imprese, affinché questo specifico canale per l’introduzione di nuove competenze nelle imprese possa essere sfruttato con maggiore efficacia.

È stato quindi affrontato il tema delicato dei precari della ricerca, ponendo in rilievo che oggi, soprattutto in assenza di concorsi nel settore pubblico, abbiamo molti giovani che hanno contratti a tempo determinato che, per vincoli normativi, non possono essere ripetuti nel tempo più di due volte, il che, ovviamente, fa sì che la maggior parte dei giovani veda un termine certo della propria presenza nel mondo della ricerca e che, quindi, cerchi altri tipi di occupazione. Ciò, sicuramente, impoverisce la capacità di fare ricerca.

Sono state indicate, inoltre, altre azioni da intraprendere, come gli incentivi fiscali sugli strumenti di trasferimento tecnologico, che devono essere identificati e finanziati a beneficio delle imprese che investono in azioni di trasferimento di conoscenza scientifica e tecnologica di origine pubblica. Con riferimento ai centri di ricerca congiunti, si propongono finanziamenti o cofinanziamenti di nuovi centri realizzati anche in partnership pubblico-privato dotati di strutture di trasferimento tecnologico, trasferimento di conoscenza ed operanti per la massimizzazione del trasferimento dei risultati della ricerca.

Infine, si considerano due aspetti legati all’attuale legislazione. Il primo riguarda le società spin-off. A questo proposito, si ricorda come le università e la ricerca pubblica stiano sollecitando da anni e continuino a promuovere la costituzione di nuova impresa basata sui risultati della ricerca. Si esorta il legislatore a fare chiarezza in questo campo dal momento che la legge finanziaria del 2008 all’articolo 3, comma 27, vietando alle amministrazioni pubbliche di costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessari per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, e di mantenere o assumere partecipazioni direttamente o indirettamente, anche di minoranza, in tali società, fa supporre che la partecipazione degli enti di ricerca al capitale sociale di imprese spin-off non sia ammissibile.

L’ultimo punto riguarda l’articolo 65 del Codice della proprietà industriale, di cui si propone una modifica elaborata dal gruppo legale di NETVAL. Su tale argomento il professore, ricordando come dal 2001 in Italia sia in vigore il cosiddetto professor’s privilege, secondo il quale i brevetti per le invenzioni ottenute dal ricercatore dipendente di ente pubblico di ricerca appartengono al ricercatore e non all’ente, sottolinea che questa norma – esistente solo in Italia – limita fortemente la possibilità che la ricerca pubblica possa operare il suo ruolo nel trasferimento dei risultati, perché essi non appartengono agli enti di ricerca. Non si può in proposito sostenere che in Italia le università brevettano poco, quando la legge non attribuisce loro il diritto al brevetto. In conclusione, si propone quindi una nuova versione dell’articolo 65 del Codice della proprietà industriale al fine di consentire una migliore gestione dell’invenzione della ricerca pubblica, tutelando gli inventori e aumentando la capacità di trasferimento, in linea con quanto accade negli altri Paesi.

Il professor Pietrabissa ha affrontato quindi talune tematiche suggerite da quesiti e osservazioni dei deputati, partendo dalla disomogeneità dei processi di innovazione presenti sul territorio e dei loro finanziamenti che risultano ancora tendenzialmente distribuiti con criteri non associati a un obiettivo. Solo recentemente si è iniziato a finanziare con criteri non puramente quantitativi, ma il problema è che il finanziamento erogato non copre neanche il taglio operato dai provvedimenti del Governo. Si tratta di un segnale troppo timido per avere risultati.

Un’ulteriore questione riguarda le piccole e medie imprese che di norma non hanno al loro interno capacità di ricerca, e una limitata consuetudine a operare in connessione con l’università. Si tratta di un problema non facilmente risolvibile. Sarebbe necessaria la presenza di una grande impresa che faccia da connessione tra i due mondi.

È stata affrontata poi la questione relativa al trasferimento delle conoscenze, che è un tipico investimento di lungo periodo, perché si basa sulla capacità di formare il sapere e, quindi, di creare la cultura anche di impresa, che non può essere più basata solo sulla rincorsa del mercato. A parere del professore, il tema è troppo ampio per trovare uno sviluppo e uno sbocco di tipo operativo immediato, però è una riflessione che il Paese deve svolgere, perché l’appiattimento del giudizio basato solo sul risultato ottenuto nel breve periodo ci penalizza in maniera straordinaria nel lungo periodo. A questo proposito, ha segnalato che in Francia, nel 2009, il finanziamento delle università come soggetto che produce conoscenza è aumentato del 50 per cento, mentre in Italia è stato ridotto del 10 per cento e ciò provocherà conseguenze negative per noi nel medio e lungo periodo.

Il professore ha accennato, infine, alla nostra capacità, oltre che di competere, di produrre conoscenza, sottolineando come la congiuntura oggi non consenta di immaginare che l’industria italiana, caratterizzata da piccole e medie imprese, possa attuare ricerca industriale di un certo tipo. Tuttavia, è necessario trovare un meccanismo per cui l’aggregazione di imprese possa consentire almeno di condividere la conoscenza di progettualità industriale.

Federmacchine

L’intervento dei rappresentanti di Federmacchine ha preso le mosse da alcune considerazioni sull’importanza dell’industria dei macchinari, di cui è stato evidenziato l’impatto formidabile sull’economia italiana. Si tratta di un settore, rientrante nel comparto più ampio della meccanica, che pur non godendo della notorietà e della visibilità di altri settori genera un valore aggiunto superiore all’industria farmaceutica di tutta Europa. È stato inoltre posto in rilievo come questo settore, caratterizzato da una forte vocazione all’esportazione (quasi il 70 per cento del fatturato) abbia un effetto traino su tutto il sistema Paese. È stato ricordato altresì il contributo dell’industria dei macchinari alla competitività delle nostre filiere tradizionali del made in Italy che non sarebbero tali se non fossero affiancate da imprenditori capaci di concepire macchinari adeguati ai loro bisogni in continua evoluzione, in grado di fornire un reale vantaggio competitivo.

L’importanza del settore emerge anche prendendo in considerazione due ulteriori aspetti qualitativi: l’impatto su tutta la rete di subfornitori che, nel complesso, rappresenta numeri importantissimi e la qualità dell’occupazione, legata sia a fattori culturali – essendo imprese esposte alla concorrenza e molto internazionalizzate – che alle competenze avanzate e uniche, generate all’interno delle imprese e frutto di un apprendimento che si ottiene sul campo. L’occupazione (consistente in circa 200 mila unità) ha un effetto di ricaduta su tutti i distretti.

Passando ad esaminare la crisi che il sistema sta ora attraversando, Federmacchine ritiene che essa dipenda oltre che dalla situazione congiunturale anche da debolezze strutturali.

In particolare, Federmacchine ha posto l’accento sul nanismo delle nostre imprese rispetto alla complessità del mondo attuale e alle caratteristiche di apertura dei mercati, ricordando che il capitalismo familiare ha mostrato una certa resistenza alla crescita, quando essa dipendeva da aggregazioni e, quindi, dalla perdita del controllo diretto sulla propria impresa. Sostiene inoltre che questo nanismo è frutto anche del sistema creditizio che ha sempre privilegiato l’erogazione di credito a breve termine, basandosi sulla conoscenza diretta degli imprenditori. Il finanziamento di prossimità ha funzionato per un certo periodo, ma non ha fatto sì che le banche indirizzassero finanziamenti su progetti di crescita o progetti industriali a lungo termine.

Gli strumenti per garantire la salvaguardia del sistema industriale sono molto pochi, inoltre quelli esistenti (come private equity, ma anche finanziamenti pubblici) sono adeguati a un sistema economico in crescita. Sarebbe, pertanto opportuno approfittare di questa situazione per approvare riforme che incidano sulle debolezze strutturali precedentemente indicate e per sperimentare idee coraggiose. È stata ribadita, infine, l’urgenza di salvare le imprese, non tanto gli imprenditori. È preferibile un intervento che rilevi parte delle tecnologie, un ramo d’azienda, da una procedura concorsuale, piuttosto che perdere in toto interi comparti. La crisi è tale che il perseverare di questa situazione rischia di far perdere dei pezzi di industria che sono assolutamente unici e non più ricostituibili. Si dovrà inoltre valutare la possibilità di operare – sempre in un’ottica strutturale – anche su altri versanti quali l’aspetto fieristico e di promozione all’estero. In questo campo, sono assolutamente necessari un grande coordinamento e la capacità di proporre un modello adeguato al Paese e alle sue esigenze.

I rappresentanti di Federmacchine si sono quindi soffermati sul settore delle macchine utensili, fornendo dati e informazioni su tale settore strategico, nel quale l’industria italiana ha fatto progressi enormi raggiungendo e sopravanzando economie, come il Regno Unito e la Francia, che avevano maggiore tradizione nel settore.

Nelle classifiche mondiali del 2008, l’Italia si posiziona al quarto posto fra i costruttori mondiali di macchine utensili, mentre tra gli esportatori occupiamo il terzo posto. Nello stesso anno la produzione della macchina utensile italiana è cresciuta dello 0,5 per cento, sfiorando i 6 miliardi di euro, pur provenendo da un’annata eccezionale, come è stata il 2007. L’andamento del 2008 è stato disomogeneo: eccezionale per i primi tre trimestri e poi critico nell’ultimo trimestre. Per il primo semestre 2009, i dati relativi al commercio estero, di fonte ISTAT, confermano un difficile momento per l’industria italiana della macchina utensile: le esportazioni sono calate del 21 per cento e le importazioni complessive sono diminuite del 55 per cento circa.

Ai dati fanno seguito alcune considerazioni sulla crisi del comparto e suggerimenti volti ad aiutare questo settore così strategico, considerato che i beni strumentali sono la base su cui si regge la competitività dell’industria manifatturiera di una nazione avanzata.

Per quanto riguarda la crisi, si è osservato che essa ha messo in gravi difficoltà i costruttori italiani, che hanno registrato un crollo repentino della domanda in tutti i settori di mercato, mentre sono diventati molto più difficili i rapporti con gli istituti di credito. La difficoltà di ottenere affidamenti dalle banche costituisce uno dei freni al recupero dei livelli di competitività pre-crisi. La situazione rischia di aggravarsi ulteriormente nei prossimi mesi, quando i bilanci 2009 saranno in sofferenza e questo fattore costringerà le banche a razionare ulteriormente i loro prestiti per rispettare i requisiti di patrimonializzazione.

Passando successivamente ad esaminare il ruolo dell’Europa, la maggiore produttrice al mondo di macchine utensili, si è sottolineato che per assicurare all’industria europea della macchina utensile la leadership, che al momento ancora detiene, occorre focalizzare gli investimenti in ricerca e innovazione.

Federmacchine propone la creazione di un sistema di cooperazione comunitario, che aggreghi imprese costruttrici di beni strumentali, ma anche utilizzatori, centri di ricerca, università, finalizzata alla condivisione della conoscenza già esistente e allo sviluppo di nuove soluzioni tecnologiche.

Tra le tematiche che vanno affrontate a livello europeo si segnalano la revisione dell’accordo Basilea 2 e gli incentivi alla rottamazione. Gli imprenditori dei beni strumentali non intendono mettere in discussione l’accordo sulla riforma dei requisiti patrimoniali delle banche, ma chiedono soltanto che sia temporaneamente sospeso e che, in attesa del completamento delle modifiche strutturali all’accordo, si provveda ad allentare per un lasso di tempo limitato – diciotto mesi – i criteri di ponderazione del rischio del credito alle PMI che in questi ultimi mesi di crisi si è ristretto.

Riguardo alla tematica della rottamazione si è osservato che, essendo l’innovazione tecnologica la carta vincente per mantenere il passo dei concorrenti, sarebbe opportuno mettere le imprese nella condizione di investire risorse per aggiornare e sostituire macchinari datati. È necessario che i Governi europei intervengano in questa fase delicata, sia varando provvedimenti quali la Tremonti-ter, sia pensando ad ulteriori misure. In questo senso, la risposta adeguata alla necessità di rendere sempre più competitiva la produzione, sia del made in Italy sia del made in Europe, consiste nell’introduzione di un sistema di incentivi alla rottamazione. Essa avrebbe positive ricadute non solo sull’aggiornamento degli impianti, rendendo l’industria più competitiva sui mercati mondiali, ma porterebbe anche un sensibile miglioramento alla sicurezza degli operatori che lavorano nelle fabbriche e una significativa riduzione dell’impatto ambientale delle lavorazioni.

Relativamente all’export dei beni strumentali, riguardante i due terzi della produzione nazionale di macchinari, si è ricordato che la crisi mondiale ha provocato la contrazione degli ordini provenienti dall’estero nella misura del 50 per cento circa. Al riguardo, si è sottolineata l’opportunità per le imprese italiane di modificare i propri comportamenti, passando a una gestione delle vendite all’estero di tipo strategico e strutturato auspicando la collaborazione degli enti pubblici che si occupano di internazionalizzazione delle imprese.

Un cenno, infine, è stato dedicato ai rapporti con il sistema creditizio, distinguendo tra le criticità dei rapporti fra banche e PMI dovute a problemi congiunturali – che sono ovviamente legati alla crisi – e problemi strutturali. Con riferimento ai problemi congiunturali, si è osservato che in un momento di crollo generalizzato della domanda, le imprese hanno bisogno di liquidità anche per garantire la gestione ordinaria e pertanto alle banche si chiede uno sforzo che vada oltre la normale analisi dei parametri finanziari. Con soddisfazione si è preso atto che è stata accolta la proposta di una moratoria sul rimborso della quota capitale dei prestiti; tale provvedimento indica la strada da seguire per una collaborazione tra imprese manifatturiere e banche di reciproco vantaggio e nell’interesse del Paese. Rimangono tuttavia valide alcune osservazioni espresse da tempo dalle associazioni e dalle imprese del settore. Una riguardante la presenza delle banche italiane sui mercati internazionali, ritenuta non adeguata alle necessità delle imprese. La seconda è che le banche non sono attrezzate per comprendere a fondo le caratteristiche delle PMI, per riconoscerne i punti di forza e valutarne correttamente il merito di credito, limitandosi troppo spesso alla richiesta di garanzie accessorie.

In risposta ad osservazioni dell’on. Pezzotta, i rappresentanti di Federmacchine si sono soffermati ancora sul sistema delle piccole imprese per le quali si augurano un incremento dimensionale – mediante varie forme di aggregazione – necessario per poter presidiare mercati vasti come gli attuali ed essere maggiormente efficienti. Hanno poi ripreso il discorso sulla crisi sostenendo che l’indebolimento del dollaro ha un enorme impatto sulle nostre imprese. Quanto alle banche hanno osservato che il loro atteggiamento finora non è stato del tutto trasparente e che comunque è necessario indurle a riconoscere come sia loro interesse un maggiore coinvolgimento nel finanziamento di investimenti produttivi e individuare sistemi per «disintermediare» il credito trattando direttamente con le imprese.

Farmindustria

Il presidente di Farmindustria, Sergio Dompè, ha evidenziato il contributo incredibile e inaspettato che il settore dell’industria farmaceutica ha apportato al Paese. La disattenzione al comparto ha purtroppo comportato la perdita di alcuni gioielli del made in Italy che oggi sarebbero straordinari veicoli di penetrazione nei mercati, quali Farmitalia, Carlo Erba, Lepetit e Sclavo: meno della metà della produzione italiana è attualmente destinata al mercato interno e alcune aziende internazionali hanno investito molto nel nostro Paese.

Ha segnalato al riguardo la recente inaugurazione a Firenze del nuovo insediamento di Eli Lilly – il maggiore investimento biotech recentemente effettuato in Europa con 270 milioni di euro, che diventeranno 350 nel giro di un anno – un gruppo che nel mondo sta riducendo di 5.500 persone il proprio organico e che in Italia, grazie al lavoro svolto prima, è riuscito ad assumerne altre 200-250. Il 90 per cento della produzione di questo stabilimento andrà all’estero, assicurando valuta pregiata per il nostro Paese.

Ha aggiunto poi che sono stati fatti contratti di programma e ottenuti 100 milioni, con i quali sono stati portati 1 miliardo e 200 milioni di euro di investimenti in Italia, che produrranno circa 4 miliardi di valore aggiunto per il nostro Paese. Se ad essi si aggiungono i contributi sociali, l’export, le tasse pagate, attualmente la bilancia dei pagamenti risulta in attivo, unica voce del bilancio sanitario rimasta sotto il budget prestabilito, nonostante i tagli subiti per 2 miliardi.

È stato pertanto chiesto un aiuto per incrementare gli investimenti delle imprese internazionali nel nostro Paese, sottolineando come non esistano problematiche di delocalizzazione per il settore, ma al contrario la possibilità di creare sviluppo per il nostro Paese e di garantirvi un conto economico in attivo e avvertendo che, qualora si continuasse a penalizzare il settore, questo non potrebbe competere con i corrispondenti settori degli altri Paesi ai quali sarebbero destinati i nuovi investimenti e in tre o quattro anni si assisterebbe ad un’inversione di tendenza molto negativa anche per il sistema industriale del nostro Paese.

Affrontando il tema dell’occupazione nel settore farmaceutico, ha denunciato la perdita di 7 mila posti di lavoro ai quali potrebbero aggiungersi altri 3 mila, osservando che il problema è dare qualificazione e impulso all’investimento. Il 90 per cento degli occupati è costituito da laureati e diplomati e più del 53 per cento degli occupati nel settore della ricerca sono donne.

Ha poi accennato alle imprese italiane che si stanno internazionalizzando con grande successo (Rottapharm, Chiesi, Menarini) e alle piccole aziende nel settore biotech che conquistano la copertina di riviste tipo Nature o Blood. La bilancia dei pagamenti per la sola parte farmaceutica è in attivo per circa 400 milioni.

Per quanto riguarda gli investimenti in ricerca e innovazione, ha rilevato che la percentuale dell’industria farmaceutica è notevolmente superiore alla media del manifatturiero. La media del settore manifatturiero in Italia è infatti all’1 per cento, mentre la media del settore farmaceutico è all’8,5 per cento (contando di arrivare quanto prima al 10 per cento). Ritiene pertanto assolutamente necessario un credito d’imposta sugli investimenti in ricerca e innovazione.

Il presidente Dompè ha infine sottolineato che Farmindustria sta collaborando con il Ministero della ricerca per attivare network di ricerca con le università.

Prof. Carlo Trigilia, professore ordinario di sociologia economica presso l’Università di Firenze.

Il professor Trigilia ha affrontato il tema relativo alla situazione dell’alta tecnologia in Italia, facendo riferimento anche ad alcune ricerche da lui condotte sulla diffusione dell’alta tecnologia, sia in termini di occupati e di addetti di imprese, sia attraverso l’indicatore costituito dai brevetti.

Si parte con una serie di dati sui brevetti quali indicatori di capacità innovativa dell’Italia, Paese debole sotto il profilo dell’innovazione tecnologica, come emerge da alcune statistiche dell’Unione europea. Sulla validità di tali indicatori ha osservato che non tutte le innovazioni sono tecnologiche, specie per quanto riguarda i settori del made in Italy (nei quali il tipo di innovazione è legata all’immagine, alle caratteristiche dei prodotti e anche al ruolo incrementale dell’innovazione, che non si manifesta attraverso il brevetto) e che non tutte le innovazioni tecnologiche sono brevettabili, non tutte sono brevettate e non tutti i brevetti si concretizzano in innovazione. Nonostante tali limiti a livello internazionale, il brevetto è considerato un buon indicatore per misurare le capacità di innovazione nei settori dove essa è più tecnologica e, quindi, prevalentemente, in quelli ad alta e medio-alta tecnologia.

Alcuni dati sulla distribuzione dei brevetti nelle varie macroaree del nostro Paese desumibili dalle domande presentate da imprese italiane all’European Patent Office (l’Ufficio europeo dei brevetti) tra il 1995 e il 2004 indicano che i brevetti italiani in questo decennio sono stati circa 28 mila: la maggior parte di essi, quasi il 47 per cento, proviene dai sistemi locali del Nord-Ovest (in particolare Piemonte, Lombardia e Liguria), ma una parte molto consistente – un altro 43 per cento – viene dalla cosiddetta terza Italia, ossia dalle regioni del Centro-Nord-Est (Toscana, Emilia, Marche, Veneto, il cosiddetto Triveneto) che sono state caratterizzate, negli ultimi 30-40 anni, da una forte crescita dei distretti industriali e dei sistemi locali di piccola impresa del made in Italy. Il dato relativo a quest’area si riferisce soprattutto a una particolare componente della nostra specializzazione distrettuale, e cioè alla meccanica e agli apparecchi medicali. Una presenza consistente si registra nel Lazio, con riferimento, in particolare, a Roma.

Usando l’indicatore brevetti, lo scarto tra il Centro-Nord del Paese e il Mezzogiorno è molto più marcato di quanto potrebbe risultare se usassimo altri dati, con i quali vengono tradizionalmente sviluppati i confronti tra Nord e Sud. Nelle attività ad alta tecnologia è importante il ruolo delle città e le città metropolitane in particolare rivestono un ruolo di primo piano: Milano da sola ha circa il 20 per cento del totale nazionale dei brevetti, e arriviamo al 40 per cento se consideriamo insieme Milano, Bologna, Roma e Firenze. La particolarità italiana è che esiste una rete di città medio-grandi, sui 100 mila abitanti, che fanno parte soprattutto della cosiddetta «terza Italia», le quali contribuiscono, tra l’Emilia, il Veneto e, in parte, la Toscana, alla crescita dei nostri brevetti. Tra il 2000 e il 2004 il trend dei brevetti è risultato in crescita soprattutto nel centro Italia.

La composizione per macrosettori tecnologici evidenzia il ruolo fondamentale svolto dalla meccanica, il vero asse portante. Infatti, il nostro Paese è leader nel mondo soprattutto nella meccanica strumentale e ci contendiamo questa posizione, anche in termini di brevetti, con i nostri principali competitori, ossia i tedeschi. Germania e Italia sono all’avanguardia nella meccanica strumentale e nella produzione di macchine per altre produzioni, in particolare il packaging, ma anche di macchine di movimento terra.

Risulta interessante anche il ruolo degli apparecchi medicali, settore a cavallo tra la tradizione farmaceutica e quella meccanica. Nell’alta tecnologia, i poli principali per la farmaceutica sono Milano e Roma, ma anche Siena. Per gli apparecchi medicali sono Milano e Bologna, ma ci sono anche centri minori. Per esempio, curioso è il caso di Mirandola, in Emilia, un distretto specializzato in apparecchi medicali. Nella medio-alta tecnologia, si distinguono Bologna, Torino per i mezzi di trasporto e Milano per la chimica.

Un confronto tra i sistemi dell’alta tecnologia leader – per i quali la brevettazione delle imprese è superiore alla media calcolata – con i sistemi che vedono una presenza di brevetti, ma inferiore alla media, mette in rilievo l’importanza soprattutto dell’area settentrionale del Paese.

Ulteriori dati relativi alle infrastrutture economiche e sociali, alle reti di servizio, alle reti immateriali, alle strutture del tempo libero e i servizi, importanti per questi sistemi, indicano che esistono correlati socio-istituzionali che accompagnano la specializzazione delle imprese, le quali non brevettano da sole, ma si concentrano in aree con caratteristiche particolari, che le aiutano nella loro azione di innovazione. Quanto al comparto della meccanica, la zona subalpina risulta in particolare marcata dalla presenza di questa specializzazione produttiva. Confrontando i sistemi locali leader, dove esiste una capacità di brevettazione delle imprese superiore alla media, nei due poli (l’alta tecnologia in senso stretto, e le macchine e gli apparecchi meccanici), si osserva che le città metropolitane rivestono una notevole importanza dovuta alla presenza di grandi imprese, servizi avanzati, ma soprattutto di capitale umano qualificato e di università, mentre per le macchine e gli apparecchi meccanici il fulcro è rappresentato dalle medie imprese dei sistemi manifatturieri della «terza Italia».

Sulla base dei dati evidenziati, il professore ha osservato che il modello italiano sembrerebbe più solido di quanto previsto, perché si tratta di un modello specifico con due specializzazioni distinte. In particolare, se si considera la forza nella meccanica, la posizione dell’Italia appare più solida, anche se questo non emerge con sufficienza dai dati delle statistiche internazionali.

Il paradosso dell’Italia è che risulta sottodotata rispetto ad altri Paesi in termini di input dei processi innovativi, però i risultati che si ottengono in termini di brevetti, di addetti nell’alta tecnologia, di tasso di introduzione di nuovi prodotti, ci mostrano una situazione diversa. Probabilmente ciò è dovuto alla presenza nel nostro Paese di un modello più informale di innovazione e di brevettazione, e alla proiezione, nel campo della medio-alta tecnologia, di una logica di tipo brevettuale, la quale fa sì che, pur non avendo il tipo di spesa formale in ricerca e sviluppo e di forza lavoro qualificata di altri Paesi, l’Italia ottiene risultati non trascurabili. Non va dimenticata l’importanza del territorio e il forte effetto di agglomerazione: il 12 per cento dei nostri sistemi locali ha più di due terzi delle imprese che brevettano nei settori principali.

Il professore ha concluso domandando se – dal momento che l’Italia presenta un modello particolare, un po’ più informale, di innovazione, ma non così debole come a volte si pensa e come le statistiche internazionali lo descrivono – le politiche per l’innovazione attuate nel nostro Paese siano coerenti con le caratteristiche dei processi di crescita e soprattutto di radicamento territoriale delle attività innovative. Ritiene in proposito che le nostre politiche non sono coerenti con il nostro modello di attività innovative. Infatti, se è vero che l’Italia spende poco per ricerca e sviluppo, è altrettanto vero che abbiamo il numero più alto, tra i grandi Paesi, di singole imprese finanziate con fondi per l’innovazione.

In Italia si spende meno in ricerca e sviluppo e in università, però si dà molto di più a un numero elevato di imprese, ciò significa che, a fronte dell’elevato numero di finanziamenti individuali, si dà molto, ma in modo molto poco selettivo, e per entità modeste. Finanziamenti erogati in maniera non selettiva su una platea così ampia di imprese non producono sostanzialmente un impatto diretto sulla capacità innovativa.

Le regioni hanno un ruolo particolarmente importante e stanno cercando di attrezzarsi per fare più politiche di sistema, cioè per promuovere reti, per riconoscere che l’innovazione non è un fatto individuale della singola impresa, ma è legata alle reti e ai rapporti di collaborazione tra imprese, e tra imprese ed enti di ricerca e, in particolare, le università.

Tra i suggerimenti conclusivi volti al recupero della coerenza tra modalità dell’innovazione e politiche, il professore ha suggerito un migliore coordinamento, una migliore divisione dei compiti tra Stato, regioni e finanza specializzata. Lo Stato, come in altri grandi Paesi, dovrebbe impegnarsi maggiormente nella promozione dei grandi fattori di input dell’innovazione, quali innalzamento dell’istruzione, funzionamento dell’università, promozione della finanza specializzata per le imprese, grandi reti infrastrutturali. Le regioni, a loro volta, dovrebbero concentrare maggiormente le risorse e, invece di finanziare con incentivi imprese singole, promuovere reti di collaborazione tra università e imprese, anche con una forte connotazione territoriale.

Un’ulteriore caratteristica distintiva del nostro mondo dell’innovazione è stata individuata nella debolezza della finanza specializzata per l’innovazione – in sostanza una carenza di venture capital – per la quale si auspica un ruolo di maggior rilievo. A tal fine, il pubblico dovrebbe ritirarsi dal finanziamento individuale e muoversi di più sulle reti, sulle attrezzature e sui beni collettivi, e lasciare la valutazione dei progetti individuali a chi, per caratteristiche e competenze, è maggiormente in grado di effettuare una valutazione in termini di finanza specializzata, nella quale il contenuto dell’idea innovativa è molto più importante rispetto alle tradizionali garanzie nella valutazione del merito di credito. Occorrerebbe un drastico ridimensionamento degli incentivi individuali, modesti ma diffusi, e un sostegno con incentivi pubblici alla costruzione di grandi reti di collaborazione con radicamento locale. In proposito si è fatto notare che uno degli ultimi progetti più interessanti messi a punto in Italia, Europa 2015, ignora quasi del tutto la dimensione territoriale nella valutazione e nella promozione dei progetti. Occorre rafforzare il ruolo della finanza specializzata per l’innovazione, pensando, per esempio, al ruolo delle fondazioni bancarie e al loro radicamento nei territori.

Un ulteriore obiettivo da raggiungere è quello della promozione della ricerca universitaria con maggiori potenzialità di ricadute sull’innovazione economica. Studi approfonditi mostrano che il potenziale di risorse scientifiche dell’università italiana, incluso quello delle università del Sud, è molto superiore a quello effettivamente impiegato per sostenere l’innovazione economica, tuttavia si riesce meno di altri Paesi a tradurre tale potenziale in attività che abbiano ricadute sul mondo dell’economia. Per esempio, abbiamo meno spin off, cioè attività industriali attivate dalla stessa imprenditorialità accademica, dalle università, e meno imprese che lavorano con le università a processi innovativi.

I possibili interventi suggeriti prevedono, innanzitutto, l’abolizione del privilegio accademico (il compenso per un’invenzione deve andare all’inventore), in quanto si tratta di un elemento di complicazione che ostacola i processi di contrattazione tra i soggetti che collaborano alle attività innovative, e finisce per essere un vincolo invece che una risorsa. L’altra iniziativa ritenuta opportuna consiste nel premiare, con misure di incentivazione adeguate, le università che investono maggiormente in assetti organizzativi interni. Nel sistema di valutazione di finanziamento nazionale, occorrerebbe attribuire un peso rilevante alle forme che spingono le singole università a investire maggiormente nel mettere a valore le loro conoscenze per l’economia locale. Infine, si ritiene necessario promuovere la ricerca di frontiera con finanziamenti adeguati, concessi, però, con rigorosa valutazione di merito.

Si è sottolineato inoltre che, nonostante i numerosi problemi delle università, occorre prestare attenzione all’idea che tali istituzioni non possono diventare il necessario motore dell’innovazione, se l’Italia non investe significativamente risorse nelle attività universitarie. Se si dovesse continuare con una politica di tagli indiscriminati alle università, non si potrà assolutamente pensare a un futuro nel quale rafforzare l’economia della conoscenza nel nostro Paese.

Il professore, rispondendo alle sollecitazioni di alcuni deputati, ha affrontato anche la questione della difficoltà a rapportarsi con l’università da parte delle PMI, sia per i costi relativi alla brevettazione, che per il rischio di imbarcarsi in progetti di ricerca che possono essere costosi e dalla resa incerta nel tempo, sostenendo la necessità della connessione tra imprese e mondo dell’università e della ricerca. Favorire la competizione tra progetti di aggregazione costruiti volontariamente da imprese e mondo dell’università potrebbe essere un modo attraverso il quale promuovere l’innovazione nei sistemi locali, tenendo conto dell’importanza del radicamento territoriale, evitando tuttavia una distribuzione non selettiva o clientelare di risorse, ma orientandola a una sostanziale progettualità. Viene ripreso anche il tema della brevettazione nel settore della meccanica, che si presenta in forte evoluzione. Si è sottolineato, infatti, che molti sistemi che oggi brevettano sono, più che di meccanica, di «meccatronica», ossia un mix di meccanica e di elettronica. Quanto ai contenuti delle invenzioni brevettate, valutati da giurie di esperti qualificati nel campo, si è evidenziato come in molti casi, la qualità dei brevetti italiani su quella specifica fascia sia risultata di tutto rispetto. Passando alla farmaceutica, il professore ha osservato che si tratta di un settore che dovrebbe essere maggiormente coltivato, in quanto si brevetta molto nelle fasi iniziali del processo di sviluppo di un prodotto farmaceutico – processo molto lento che dura in media dieci anni – mentre non si riesce a presidiare le fasi a valle, perché sono molto costose e richiedono investimenti.

L’ultimo punto affrontato è stato il problema dell’innovazione nel Mezzogiorno, nei confronti del quale occorrerebbe compiere uno sforzo per collegare maggiormente le potenzialità esistenti nelle università meridionali – dove ci sono bravi ricercatori e, fortunatamente, nuclei di potenzialità e di innovazione molto forti – con le imprese. Se si guarda alle politiche di utilizzo dei fondi europei, si nota che una buona parte di esse compaiono sotto l’etichetta di «politiche per l’innovazione». In realtà, sono spesso politiche distributive, che danno pochi quattrini a tante imprese, con scarsissimi effetti sull’innovazione. Se le regioni meridionali nella gestione dei fondi di loro pertinenza utilizzano tali fondi per una distribuzione a pioggia, che rafforza i ben noti meccanismi consensuali, spesso richiesti anche dalle associazioni di categoria, il risultato è quello di non fare politica dell’innovazione e di sprecare risorse.

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